
UNA STORIA TUTTA ITALIANA….
Metodo produttivo e considerazioni pratiche su conservazione e consumo

Il metodo produttivo è piuttosto semplice a parole, ma molto difficile in termini pratici, poichè la miscela di spezie, il tempo di estrazione ed il vino da miscelare influenzano in maniera determinante la qualità, rendendo difficile uno standard qualitativo costante. Vi sono almeno un decina di manuali scritti fra la fine del 1800 e l”inizio del 900 che riportano altrettanti metodi produttivi ed almeno una trentina di ricette. Ma tutti concordano con la qualità eccelsa del vino e delle spezie e sul rispetto dei tempi di lavorazione. In alcune antiche fabbriche, ad esempio Carpano, proprio per non svelare la formulazione delle spezie la ricetta veniva suddivisa su tre o quattro persone in modo che ognuno ne sapesse soltanto una parte. Appare quindi ovvio che per la produzione del vermouth, nel senso alto del termine, occorre una grande e consolidata esperienza nella lavorazione delle spezie in infusione. Occorrono molti mesi, se non un anno di prove per giungere ad un risultato qualitativamente accettabile. La stabilizzazione della miscela di spezie e le incognite sulla sua tenuta nel tempo sono fondamentali per il successo di un prodotto. Le spezie si “sorreggono” una con l”altra e si esaltano a secondo della presenza o meno di altre, pertanto anche una piccola variazione può cambiare il profilo organolettico del vermouth. A questo punto, se si vuole ovviare ai tempi ed all”esperienza, intervengono i produttori di essenze ed alcolati, spesso con miscele “vermouth” già pronte o da personalizzare. Il mercato è quanto mai variegato ed in preda ad una vera e propria febbre del vermouth, che vede parecchie offerte. Ci sono vermouth artigianali da poche migliaia di bottiglie elaborati da piccole realtà che partono spesso da ricette originali ottenute con infusioni di erbe e spezie e vermouth, cosiddetti industriali, da decine di migliaia di pezzi, elaborati a partire da una base, che viene “firmata” dal committente con infusi naturali preparati da aziende specializzate. Tutti hanno la loro dignità e la loro fascia di mercato, data dal prezzo di produzione che varia da pochi, a decine di euro. Unica avvertenza non spacciare per artigianale un prodotto che artigianale non è, ovvero prodotto con essenze già pronte in migliaia e migliaia di bottiglie. Ancora una volta sarà il senso critico del consumatore a dover essere affinato, con visite in cantina e degustazioni, per capire quali siano veramente le produzioni di eccellenza, tenendo conto che in definitiva sarà poi il gusto personale, diverso in ognuno di noi, a dare il responso finale, senza trascurare il contesto operativo dove andremo ad operare. Anche la lettura delle etichette potrà dare una grossa mano, sapendo ovviamente la differenza esistente fra una dicitura “infusione di erbe e spezie” ed “aromi naturali”. Spesso il consumatore non addetto ai lavori premia i prodotti privi di spigoli , piuttosto che vermouth eccessivamente connotati, che sono invece preferiti dai barman. E” per questo che solitamente all”interno dei supermercati troviamo prodotti dolci, poco amari e floreali, mentre nei bar è un fiorire di prodotti “firmati” con legni amari nobili, artemisie e genziana. Un ultimo importante particolare. Una volta aperto il vermouth andrà tenuto in frigo, per evitare ossidazioni al colore ed al gusto. Sullo scaffale del nostro bar dovremmo tenere le bottiglie chiuse, da vetrina, mentre le bottiglie da lavoro, dovrebbero essere tenute al fresco. I prodotti artigianali comunque avranno una variazione di profilo aromatico, grazie al loro metodo produttivo con botanici naturali in infusione. La loro persistenza aromatica sarà sempre superiore, come accade già per gli amari, infatti gli aromi “naturalmente identici”(artificiali) hanno la tendenza a scomparire. Nel vermouth siamo al riparo da questo problema poichè non è ammesso l”uso di aromi di sintesi, esclusa la vanillina, come vedremo. I prodotti naturali, tenuti chiusi, se non verranno consumati entro un periodo di un anno, massimo 18 mesi, avranno una normale ed interessante evoluzione del profilo olfattivo, come già succede con i vini, che perdono in fragranza e guadagnano in complessità per via delle polimerizzazioni. Una volta aperto, anche se tenuto in frigo, il consiglio è per un consumo abbastanza veloce per mantenere intatta la franchezza del prodotto.La produzione del vermouth tradizionale

Anticamente, in alcune aree del Piemonte, il vermouth veniva prodotto nel periodo invernale, mettendo le erbe in infusione in botti di media capacità, da 12 a 16 brente (la brenta era pari a 50 litri). Le botti venivano messe sotto le tettoie, esposte al freddo in modo che l”infusione fosse lenta e che i tartrati cristallizzassero, precipitassero sul fondo, insieme alle impurità in sospensione, stabilizzando il vino. L”infusione avveniva in un liquido a circa 20/22 gradi, ottenuto miscelando vino ed alcol con diverse erbe la cui ricetta segreta variava a secondo della famiglia. La fortificazione era necessaria specialmente in presenza di vini bianchi non eccessivamente alcolici mentre divenne una pratica meno frequente o eseguita in percentuale minore quando si iniziarono ad utilizzare i vini provenienti dal sud. Sicuramente il numero di piante contenute doveva essere limitato, spesso territoriale, senza troppe e costose spezie di provenienza straniera. L”assenzio, erba comune in tutte le campagne, e quindi dal costo bassissimo, doveva farla da padrone nella miscela di erbe del vermouth, in compagnia di poco altro, reperibile nei campi e negli orti. Dopo i mesi invernali il prodotto veniva poi imbottigliato con la primavera e lasciato riposare ancora 6 mesi, in modo che i botanici si amalgamassero completamente. In epoca successiva, la produzione variò leggermente, infatti la miscelazione fra alcol e vino venne fatta a posteriori. Questa tecnica, ci spiegano i libri antichi, prevedeva due scuole: la prima procedeva con un infusione a freddo in alcol delle spezie che poi veniva unita al vino, la seconda, invece, lavorava con un”infusione nel vino e fortificava il prodotto con alcol “neutro” successivamente. La seconda, appare evidente, è figlia delle tecniche usate per i vini liquorosi di Spagna e Portogallo. Ma la maggioranza delle aziende procedeva con la prima tecnica, essendo che l”infusione in alcol era più veloce per via della maggiore potenza estrattiva. Determinata la ricetta della miscela di spezie si procedeva alla sua infusione in appositi contenitori, detti infusori. Il principale botanico presente doveva essere l’assenzio, dal cui nome in lingua germanica (wermut) deriva il nome del prodotto. Alcune volte si procedeva con lavorazioni separate. L’alcol solvente in questo caso era di gradazioni diverse a seconda del botanico utilizzato, cortecce e radici avevano bisogno di più tempo e maggior “spunto” per essere lavorati, rispetto a fiori e bacche, decisamente più delicati ed a rischio “bruciatura”. Altre volte si procedeva con un infusione unica oppure aggiungendo via via i botanici più “teneri”a seconda del loro tempo di digestione, termine usato nei vecchi testi di liquoristica. Si poteva anche lavorare con un infusione a caldo unica, scaldando con vapore o con un fuoco molto basso la botte o l”infusore per accelerare i tempi di estrazione. Si poteva infine procedere con una singola infusione calda, dedicata ad un botanico coriaceo quale il rizoma di rabarbaro o la china, per quest”ultima alcune volte utilizzando anche l”acqua calda. L”acqua sarebbe comunque tornata utile per allungare la gradazione del prodotto. Il “Gout Maison”, la firma del produttore, risultava determinante per la decisione delle quantità e la qualità delle spezie, che doveva comunque avere alcuni “capisaldi” come l”assenzio. Una volta ottenuta l”infusione si filtrava, facendo attenzione a non impoverire troppo il risultato. I filtri a cartone risultavano troppo fini e a loro venivano preferiti tela o iuta, prima dell”avvento delle tecnologie moderne. Alcune liquorerie utilizzavano una sorta di filtro da tè per lo scopo, ottenuto con alcuni sacchi di iuta, onde evitare l”operazione suddetta. Ovviamente l’aromatizzazione risultava molto più delicata ed i sentori del vino erano molto più presenti. Al termine di questa operazione il liquido veniva dolcificato con zucchero bruciato o caramellato, con percentuali variabili. Il primo è uno zucchero imbiondito che non ha i sentori amaricanti del primo, ed ha sopratutto una funzione legante ed aromonizzante. Il potere colorante è minore e i vermouth che lo utilizzano sono spesso di un bel ambra scuro. Il secondo, il caramello, ha un potere colorante superiore e minor dolcezza percepita. In precedenza, quando la componente amara era superiore, la quantità di zucchero, spesso dichiarava in etichetta poteva arrivare anche ad un 24%, mentre la consuetudine era intorno al 15 massimo 18%. Il termine vermouth mette al riparo il consumatore dall”utilizzo di aromi di sintesi, poichè sono vietati per la sua produzione. Unica eccezione l”aroma di vaniglia sintetico, la vanillina, il cui uso è stato autorizzato in sostituzione delle costose bacche. Per questo motivo in alcuni prodotti industriali è comparsa la scritta “aromi” ad indicare la sua presenza. Per la dicitura “Torino” invece è determinante, almeno nella volontà dei produttori, l”uso in percentuale del Moscato nel vino base. Ma questo, al momento, è ancora discrezionale. Al Parlamento Europeo è stata formulata una proposta per la tutela del Vermouth Torino che prevede l”uso di artemisie piemontesi, di Moscato anche in piccola percentuale, produzione ed imbottigliamento sul territorio regionale. Vedremo come l”utilizzo del vitigno aromatico fosse funzionale alla situazione dell”epoca e la percentuale viene enunciata in un libro fondamentale di Arnaldo Strucchi, considerato tecnicamente una sorta di disciplinare del vermouth. L’uso del mosto semi fermentato di Moscato fortificato lasciava un residuo zuccherino abbastanza elevato che permetteva un importante risparmio di zucchero, bene di consumo costoso e spesso scarsamente reperibile nel passato. Oggi questa pratica è scomparsa del tutto. Inoltre il Moscato era fortemente radicato nel territorio, si trovava a prezzi abbordabili ed i tempi del successo della versione frizzante erano ben lontani. Tale percentuale viene fissata da Strucchi in un minimo del 25 ad un massimo del 50%, ma rimane una semplice indicazione e non esiste nessun obbligo di legge al proposito. Il Moscato oggi viene utilizzato sporadicamente, sia per via del suo successo nella versione frizzante, l”Asti, che ne ha fatto lievitare i costi, sia per la sua componente aromatica che risulta meno gradita al moderno consumatore di vermouth. Il Moscato anche per via di una sua certa instabilità aromatica è via via scomparso per lasciare il posto a vini leggeri e privi di profumi provenienti dalle varietà di trebbiano coltivate in Emilia Romagna e Puglia. L’abbassarsi del costo dello zucchero e dell”alcol ha reso il suo utilizzo sporadico e solo ad appannaggio dei produttori artigianali che vendono le bottiglie a prezzi ben superiori a quelli dei prodotti commerciali. Qualora si usasse Moscato, nella totalità dei produttori il prodotto è vinificato secco, lasciando allo zucchero di canna il compito di dolcificare. La media dei produttori piemontesi che dichiara ancora l”uso ancora Moscato oggi lavora con percentuali variabili dal 25 al 30%, usando per il resto della cuvee vini bianchi piemontesi come Cortese ed Arneis mentre il restante opta per dei trebbiani provenienti dal centro e sud Italia. La colorazione del vermouth, come accennato in precedenza, avviene tramite zucchero bruciato o caramello, che viene fabbricato in apposite macchine. L’uso di uno o dell’altro è discrezionale, così come la percentuale, infatti potremmo avere colorazioni profonde e scure, quasi da amaro e colorazioni più rosse, come vedremo in seguito nel paragrafo dedicato al mercato. Alcuni prodotti “rossi” che prevedono l”aggiunta di caramello hanno in realtà colorazioni scure molto più vicine a quelle di un amaro. Una curiosità: agli 800 inizi 900, quando si parlava semplicemente di “italian sweet vermouth”il colore non doveva essere così scuro. Lo possiamo intuire per via di alcune descrizioni date da alcuni autori che parlavano di color ambra, in tonalità più o meno cariche. La profondità di colore vicino al mogano, sarebbe arrivata successivamente forse per distinguerlo più nettamente dal bianco. Sul caramello esistono molte discussioni poichè una sua variante è vietata. Ovviamente i produttori se ne sono guardati bene dall”utilizzarla. Per avere notizie è sufficiente immettere su Google la dicitura “E 150″ ed apparirà una serie infinita di articoli circa i prodotti ammessi e no. Infine l”invecchiamento, pratica poco usata in Italia, ma prevista. Trattandosi di vino il disciplinare non vieta tale pratica, che in Spagna e Francia è una prassi per talune specialità. Il gusto si integra e smussa gli spigoli. Il vermouth può essere lasciato affinare in botte per un periodo discrezionale e non vi sono vincoli al contenuto precedente di essa. In passato si parlava di invecchiamento naturale e di invecchiamento artificiale, ottenuto scaldando il vino con una procedura che ricordava molto da vicino il processo produttivo del Madeira commerciale. Al momento gli unici ad avvalersi del “wood finish” in botte da whisky sono il Vermouth del Professore che produce quantità limitate utilizzando una botte di whisky di Islay, mentre in botte classica abbiamo il solo Mancino.
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