• Curiosità dal Mondo del Bere

    L’utilizzo delle schiume nei cocktails 1° parte

    Oggi presentiamo alcune tecniche tradizionali, o non proprio così tradizionali, per realizzare e per perfezionare le schiume da utilizzare nei cocktail.


    Che cosa è una schiuma?

    Tutte le schiume sono una sottocategoria di dispersioni. Nella chimica, una dispersione è il mix uniformemente diffuso di un materiale in un altro. Quando un solido viene disperso in un liquido (come il caffè in acqua calda), il fenomeno viene chiamato sospensione. Quando un liquido è disperso in un liquido (come l’olio in una vinaigrette) si parla di emulsione. E quando un gas viene disperso in un liquido, abbiamo una schiuma.

    Se avete realizzato una maionese o una vinaigrette, potreste sapere che gli emulsionanti che si verificano naturalmente nei tuorli d’uovo e nella senape aiutano a tenere insieme le porzioni di olio e acqua di queste ricette. Oggi parliamo specificamente delle schiume. Nelle schiume, i tensioattivi riducono la tensione superficiale di un liquido, il che a sua volta influenza la quantità di pressione che può accumularsi in bolle prima di scaturire il processo. E quando le bolle non compaiono, si forma una schiuma.


    Come è fatta una schiuma?

    Una schiuma in cima al cocktail è una guarnizione. Non tutte le bevande hanno bisogno della stessa guarnizione e, alcune, non la richiedono affatto. Allo stesso modo, alcune bevande hanno bisogno di una schiuma spessa e pesante, mentre altre beneficiano di gran lunga più di una schiuma leggera. Tutte le schiume sono composte da due parti distinte: una fase dispersa (le bolle) e una fase continua (il liquido).

    La torsione delle caratteristiche di una di queste due fasi cambia la sensazione di bocca. La bocca è maggiormente influenzata dalla schiuma da due variabili: viscosità e cremosità.

    – La crema è definita dalla dimensione delle particelle della fase dispersa di una schiuma.

    La lingua umana può distinguere particelle più grandi di circa 30 micron.  Questo significa che se tutte le bolle in una schiuma sono inferiori a 30 micron, la lingua percepirà una schiuma perfettamente cremosa, mentre qualsiasi cosa più grande di 30 micron può essere percepito come più granuloso o frizzante.

    – La viscosità è una proprietà dei liquidi e viene definita dalla forza necessaria per spostare un solido attraverso il liquido. Pensate alla melassa come esempio di liquido viscoso. La viscosità complessiva di una schiuma è influenzata sia dalla dimensione delle particelle sia dalla viscosità della fase continua (cioè il liquido). I liquidi più spessi creano schiume più spesse. Ad esempio, i succhi di frutta e le puree sono sospensioni e i tuorli d’uovo sono emulsioni, il che significa che la consistenza delle schiume realizzate con questi ingredienti dipenderà non solo dalla dimensione e dalla viscosità della bolla, ma anche dalla dimensione delle particelle di solidi sospesi e dalle interazioni tra olio e acqua.


    Schiume d’uovo.

    Semplice, facile e adatta per la maggior parte delle situazioni.

    Per un cocktail semplice che beneficia davvero dell’aggiunta di un bianco d’uovo, non guardate oltre il classico Sour. Senza il bianco d’uovo, il Sour non riesce ad esprimersi al massimo…ma, con il bianco d’uovo, la bevanda si trasforma in una decadenza cremosa. Inoltre, la spuma grossa mantiene la guarnizione e l’aroma di eventuali gocce e bitters che possono essere parte di una ricetta.

    Per creare una buona schiuma partendo dal bianco dell’uovo bisogna agitarlo senza aggiunta di ghiaccio…operazione che verrà eseguita successivamente.

    Per rendere un Sour leggermente schiumoso, mescolare 1 albume d’uovo per ogni circa 15 once di succo di limone. Le scosse a secco funzionano perché le schiume dall’uovo si formano più facilmente quando sono a temperatura ambiente.


    Alcuni fattori da considerare

    Partendo dall’uovo fresco, si formerà una schiuma più stabile, ciò ha a che fare con la forza delle proteine ​​nell’albumina.

    – L’acido aiuta a stabilizzare una schiuma dall’uovo.

    – A causa delle elevate pressioni che comportano, una schiuma fatta con un sifone di frusta sarà sempre più cremosa di una schiuma fatta da scuotimento a secco o da miscelazione – questo non è sempre auspicabile.

    – La crema di tartaro, come il succo di limone, è un acidificante.

    – Gli acidi aiutano a formare le schiume dall’uovo interferendo con i legami di zolfo che altrimenti causerebbero il collasso.

    Alternativa all’albumina ?

    Una alternativa unica nel suo genere è un prodotto completamente vegano che crea una schiuma vellutata adatta ad ogni tipo di drink dove si vuole dare un’effetto scenografico ma soprattutto sicuro, si chiama Stillabunt Magic Velvet


    Proseguiamo nella presentazione di alcune tecniche per realizzare schiume come guarnizione dei drink. Oggi scoprirete la schiuma di birra ed altre applicazioni per le tecniche di cocktail evolution…….Continua…..

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Gin Craze: la moda del gin del 18° secolo

    An unidentified woman wearing a ‘flapper’- style skirt dances at a party, as actor Shelley Winters (center) watches in the background in a still from the film, ‘The Great Gatsby,’ directed by Elliott Nugent, 1949. (Photo by Paramount Pictures/Courtesy of Getty Images)

    L’eccessivo consumo di alcol non riguarda solo i giorni nostri: “the Gin Craze” a Londra nel 18° secolo generò tanti problemi sociali e grida di protesta


    Lo sapevi? Le bettole del Gin nell’Inghilterra del 18° secolo permisero per la prima volta alle donne di bere assieme agli uomini. Si pensava che ciò portasse molte di loro a trascurare i figli e a darsi alla prostituzione. Per questo motivo il gin era conosciuto come “Mother’s Ruin”, la rovina della madre.

    L’eccessivo consumo di alcol non riguarda certo solo i giorni nostri. La Moda del Gin (the Gin Craze) diffusasi a Londra nel 18° secolo generò tanti problemi sociali e fomentò tante grida di protesta quanto nient’altro fra ciò di cui possiamo leggere oggi nei giornali.

    Il Gin nel 18° secolo aveva un nomignolo tutt’altro che lusinghiero: “rovina delle madri”

    Illustrazione dell'interno di una gin palace londinese

    Illustrazione dell’interno di una Gin Palace londinese

    Nella sovraffollata e malfamata Londra Georgiana, il gin era l’oppio del popolo. Per pochi spiccioli i poveri potevano divertirsi e trovare una scappatoia dal freddo e dalla fame nel fondo di un bicchiere. Nel 1730 nella capitale inglese venivano distillati ogni anno circa 10 milioni di galloni (più di 45 milioni di litri) di gin, poi venduti nei 7000 “cicchettari” sparsi per la città. Si è stimato che il londinese medio bevesse la sconcertante quantità di 63 litri di questa roba in un anno!

    D’invenzione olandese (il jenever), il gin divenne popolare in Inghilterra quando William of Orange, nato in Olanda, salì sul trono inglese nel 1688. Alla fine del secolo, a causa della guerra contro la Francia, il governo inglese impose una tassa pesante sull’importazione di spiriti e aumentò le restrizioni sulla produzione domestica di alcolici. In questo modo crearono un mercato fruttuoso per il grano di bassa qualità – portando enormi benefici solo ai tanti proprietari terrieri seduti in parlamento. Anche le nuove entrate delle tasse non furono niente male.

    Gli effetti furono devastanti. Il gin fu accusato di essere la causa di miseria, crimine crescente, prostituzione, pazzia, alta mortalità e bassa natalità. il vice-ciambellano Lord Hervey ossevò che “La tendenza alla sbronza della gente comune è universale, l’intera città di Londra brulicava di ubriaconi da mattina a sera.” In un famoso processo del 1734 una donna, Judith Dufour, fu accusata di aver strangolato il figlio di due anni e venduto i suoi vestitini nuovi per 1 scellino e 4 penny che le servivano per comprare gin.

    Le proteste aumentavano e il governo fu costretto ad agire. Il Gin Act del 1736 tassò il commercio al dettaglio per 20 scellini al gallone e stabilì che vendere gin senza una licenza annuale di 50 sterline fosse illegale. Nei successivi sette anni furono rilasciate solo due licenze. Mentre una moltitudine di onesti venditori fallirono, i contrabbandieri prosperavano. I loro gin, dai nomi pittoreschi quali ‘Ladies Delight’ (Delizia delle donne) o ‘Cuckold’s Comfort’ (Consolazione del cornuto) di solito contenevano trementina al posto del ginepro. Dentro questi gin ci si poteva trovare ogni sorta di terrificante e letale ingrediente, come per esempio l’acido solforico.

    “Gin, maledetto Demonio, pieno di furore, rende la razza umana una preda. Entra da uno spiffero mortale e sguscia via con la nostra vita. – Rev James Townley, 1751

    William Hogarth, in un autoritratto del 1745

    William Hogarth, in un autoritratto del 1745

    Nel 1751 l’artista William Hogarth (ne parliamo nell’articolo “Quando il gin era pieno di acido solforico e trementina“) pubblicò la stampa satirica ‘Gin Lane’, dipingendo scene raccapriccianti. Forse la scena più disturbante ritratta nella stampa è quella di una madre, folle per il gin e ricoperta di piaghe sifilitiche, che, senza accorgersene, lascia fatalmente cadere il suo bambino dalle scale, mentre prende un pizzico di tabacco da fiuto. Assistito da tale propaganda, quell’anno fu approvato un altro Gin Act. Le imposte sulle licenze furono abbassate e i distillatori furono costretti a vendere solamente ai rivenditori dotati di licenza e che commerciavano in luoghi rispettabili.

    Anche un cambiamento nell’economia aiutò a invertire la corrente. Una serie di raccolti andati male fecero aumentare il prezzo del grano, rendendo i proprietari terrieri meno dipendenti dagli introiti provenienti dalla produzione di gin. Provocarono anche l’aumento del costo del cibo e l’abbassamento delle paghe, così che i poveri non potevano più permettersi la loro droga preferita. Ma la Moda del Gin era tutto tranne che finita.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Il cocktail Hugo tra sole e profumi

    spritz hugo

    Il cocktail Hugo è un drink giovane, elaborato nel XXI secolo e diffuso molto rapidamente dall’Alto Adige in tutta Italia, varcando anche i confini nazionali. L’origine altoatesina ha infatti consentito al cocktail Hugo di diffondersi nei paesi confinanti: troviamo l’Hugo servito in numerosi locali in Germania, Svizzera e Austria.

    Da molti considerato una variante dello Spritz, il cocktail Hugo si è imposto come drink estivo e aperitivo ideale, grazie alla freschezza e alla gradazione alcolica moderata. Il drink possiede inoltre un bouquet olfattivo molto intenso e gradevole, che lo rende favorito sia dal pubblico maschile che femminile.

    Le origini del drink

    Il drink nasce nel 2005 presso il wine & cocktail bar San Zeno a Naturno, a pochi chilometri da Merano. Il piccolo comune altoatesino è noto per il sole sempre splendente e per i vigneti di Riesling: qui ogni anno si svolge il festival Giornate del Riesling dal 2004.

    Il cocktail Hugo nasce per mano del barman Roland Gruber, che dietro al banco del suo locale intende proporre un’alternativa territoriale allo spritz veneziano. Elabora un drink mescolando Prosecco, sciroppo di melissa, soda e foglie di menta: il cocktail Hugo è servito. La clientela di barman Roland gradisce e il nome Hugo ben presto si diffonde dapprima nel Sud Tirol per poi propagarsi in tutta la nazione, e oltre.

    Il nome

    Sembra che in origine il nome del drink dovesse essere Otto, ma in seguito il barman preferì il più internazionale Hugo. Non è chiaro il motivo di tale appellativo ma è certo che un simile nome abbia facilitato l’ampia diffusione del cocktail.

    Il Barman

    Roland Gruber rappresenta l’archetipo del sudtirolese: stile montanaro, barba possente, maniere autentiche e gran cuore. Dopo un lungo girovagare che lo ha portato dietro ai banconi di locali tra la Germania e la Svizzera Roland decide di tornare a casa, a Naturno. Come molti suoi conterranei AK (nome d’arte del barman) rimane molto legato alla sua terra: “Un altoatesino sa bene dove risiedono le sue radici” sono parole di Roland.

    Il Barman Roland Gruber

    Nel 2005 realizza il sogno di aprire un wine & cocktail bar nella sua Naturno, e realizza un locale che è un piccolo gioiello e un esempio di ospitalità. La creazione del cocktail Hugo gli rende una fama inaspettata. Ora è il padrone di casa di Gasthaus Spinas a Bever, nell’Alta Engadina, dove l’Hugo è naturalmente il drink della casa.

    Ricetta del cocktail Hugo

    Il cocktail Hugo è considerato uno sparkling, nel quale il Prosecco è l’elemento principale. E’ facile imbattersi in ricette che riportino dosi differenti, in quantità e in rapporto.

    Spritz Hugo

    La ricetta proposta è la seguente:

    2 oz | 6 cl Prosecco
    2 oz | 6 cl Seltz
    1 oz | 3 cl Sciroppo di fiori di sambuco
    4 foglie di menta

    Bicchiere: calice
    Tecnica: stir
    Guarnizione: fetta di limone


    Ricetta originale vs ricetta nazionale

    La ricetta originale dell’Hugo prevede l’uso di sciroppo di melissa, ora sostituito dallo sciroppo di fiori di sambuco perché più facilmente reperibile. Le dosi della ricetta originaria prevedevano un rapporto differenti tra gli ingredienti, sbilanciato verso il Prosecco. Molti usano acqua frizzante in assenza di seltz o soda.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Il cocktail Hugo tra sole e profumi

    spritz hugo

    Il cocktail Hugo è un drink giovane, elaborato nel XXI secolo e diffuso molto rapidamente dall’Alto Adige in tutta Italia, varcando anche i confini nazionali. L’origine altoatesina ha infatti consentito al cocktail Hugo di diffondersi nei paesi confinanti: troviamo l’Hugo servito in numerosi locali in Germania, Svizzera e Austria.

    Da molti considerato una variante dello Spritz, il cocktail Hugo si è imposto come drink estivo e aperitivo ideale, grazie alla freschezza e alla gradazione alcolica moderata. Il drink possiede inoltre un bouquet olfattivo molto intenso e gradevole, che lo rende favorito sia dal pubblico maschile che femminile.

    Le origini del drink

    Il drink nasce nel 2005 presso il wine & cocktail bar San Zeno a Naturno, a pochi chilometri da Merano. Il piccolo comune altoatesino è noto per il sole sempre splendente e per i vigneti di Riesling: qui ogni anno si svolge il festival Giornate del Riesling dal 2004.

    Il cocktail Hugo nasce per mano del barman Roland Gruber, che dietro al banco del suo locale intende proporre un’alternativa territoriale allo spritz veneziano. Elabora un drink mescolando Prosecco, sciroppo di melissa, soda e foglie di menta: il cocktail Hugo è servito. La clientela di barman Roland gradisce e il nome Hugo ben presto si diffonde dapprima nel Sud Tirol per poi propagarsi in tutta la nazione, e oltre.

    Il nome

    Sembra che in origine il nome del drink dovesse essere Otto, ma in seguito il barman preferì il più internazionale Hugo. Non è chiaro il motivo di tale appellativo ma è certo che un simile nome abbia facilitato l’ampia diffusione del cocktail.

    Il Barman Roland Gruber

    Il barman

    Roland Gruber rappresenta l’archetipo del sudtirolese: stile montanaro, barba possente, maniere autentiche e gran cuore. Dopo un lungo girovagare che lo ha portato dietro ai banconi di locali tra la Germania e la Svizzera Roland decide di tornare a casa, a Naturno. Come molti suoi conterranei AK (nome d’arte del barman) rimane molto legato alla sua terra: “Un altoatesino sa bene dove risiedono le sue radici” sono parole di Roland.

    Nel 2005 realizza il sogno di aprire un wine & cocktail bar nella sua Naturno, e realizza un locale che è un piccolo gioiello e un esempio di ospitalità. La creazione del cocktail Hugo gli rende una fama inaspettata. Ora è il padrone di casa di Gasthaus Spinas a Bever, nell’Alta Engadina, dove l’Hugo è naturalmente il drink della casa.

    Ricetta del cocktail Hugo

    Il cocktail Hugo è considerato uno sparkling, nel quale il Prosecco è l’elemento principale. E’ facile imbattersi in ricette che riportino dosi differenti, in quantità e in rapporto.

    Hugo Spritz

    La ricetta proposta è la seguente:

    Bicchiere: calice
    Tecnica: stir
    Guarnizione: fetta di limone


    Ricetta originale vs ricetta nazionale

    La ricetta originale dell’Hugo prevede l’uso di sciroppo di melissa, ora sostituito dallo sciroppo di fiori di sambuco perché più facilmente reperibile. Le dosi della ricetta originaria prevedevano un rapporto differenti tra gli ingredienti, sbilanciato verso il Prosecco. Molti usano acqua frizzante in assenza di seltz o soda.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    LA STORIA DEL CLASSIC COCKTAIL CLUB

    Franco Zingales Fondatore

    Il CCC, fondato nel 1995, da un’idea di Franco Zingales, allora caporedattore di Bargiornale e autore di molteplici libri di Cocktails, nato per rilanciare e promuovere le ricette che sono alla base della storia del bere miscelato nel mondo. Inoltre la conoscenza storico-culturale del bere, il bere miscelato di qualità in tutte le sue sfaccettature, attraverso incontri, dibattiti, tavole rotonde, concorsi, viaggi studio, corsi informativi, pubblicazioni, ricerche storiografiche e merceologiche.  Al C.C.C., senza scopi di lucro, aderiscono non solo operatori del settore, ma anche appassionati cultori del mondo enogastronomico-liquoristico e non ha funzioni e caratteristiche tipiche delle associazioni di categoria.

    Per rilanciare le ricette classiche che hanno fatto la storia del bere miscelato nel mondo. Per promuovere il bere miscelato di qualità in tutte le sue sfaccettature, attraverso incontri, dibattiti, tavole rotonde, concorsi, viaggi studio, corsi informativi, pubblicazioni, ricerche storiografiche e merceologiche da parte degli operatori del mondo del bere e degli appassionati frequentatori di bar storici o con indirizzo specializzato nel settore del drink miscelato,si sentiva la necessità di istituire un Club, meglio un gruppo di amici, che valorizzasse le tradizioni storiche nel campo del bere.



    Il Club, amicale e senza scopo di lucro, ha per fine il rilancio e la difesa delle 46 ricette internazionali che hanno fatto la storia del bere miscelato. Inoltre il CCC vuole promuovere il bere miscelato di qualità in tutte le sue sfaccettature: queste finalità verranno conseguite attraverso pubblicazioni, ricerche storiografiche e merceologiche, campagne di valorizzazione ed educazione alimentare in generale o specificatamente connesse al settore delle bevande e quant’altro ritenuto utile e opportuno dal consiglio direttivo del Club stesso.

    Michele Di Carlo attuale presidente C.C.C.

    Il Classic Cocktail Club non vuole essere un “contenitore” del passato, ma vuole proiettarsi verso il futuro partendo da quanto è stato costruito nel corso di quasi un secolo dai barmen di tutto il mondo, da illustri scrittori o personaggi dello spettacolo che hanno saputo interpretare al meglio il ruolo del “bicchiere” come momento di socialità ed incontro
    Il CCC vuole essere, dunque, un punto di riferimento per tutti gli operatori o semplici amatori del mondo del bere miscelato. Vuole divulgare e codificare in modo corretto tutto quanto è stato fatto, scritto e detto di questo variegato mondo. Ciò significa che occorre, innanzitutto, individuare la giusta maniera di comunicare, riscrivere le regole della comunicazione o informazione e chiarire perfettamente il significato dei termini che si utilizzano. Occorre, pertanto, dotarsi di una terminologia chiara e precisa che spazzi via ogni ombra di dubbio e che indichi perfettamente il significato dei termini che si utilizzano, arrivando alla stesura di un glossario del bere miscelato comprensibile non solo agli addetti ai lavori, ma anche a coloro che in un cocktail ritrovano momenti di storia della liquoristica mondiale (tradizioni, riscoperte, metodologie di produzionei segreti della distillazione, i grandi momenti letterari legati ai vari Hemingway, Somerset W. Maugham, Scott Fitzgerald, Pavese, Soldati e così via).

    Brano musicale preferito dallo Zio Zingales

    Da sottolineare che il CCC è diviso in due categorie di iscritti: professionisti ed amatori.  primi sono coloro che abbiano esercitato per almeno cinque anni l’attività di somministrazione di bevande sia in qualità di barman. barista , gestore o semplice preposto, i secondi sono coloro che non rientrano nelle precedenti categorie… a tutti gli amici che vorranno sapere di piùo interagire con il Club lo trovate su Facebook cercando Classic Cockail Club dal 1995 


    RICETTARIO C.C.C.

    LE  RICETTE DEI PRIMI 50 COCKTAILS IBA

    ADONIS: 2/3 dry sherry, 1/3 vermouth rosso, 1goccia orange bitter (mixing-glass, coppetta da cocktail) AFFINITY: 1/2 scotch whisky, 1/4 vermouth dry, 1/4 vermouth rosso 2 gocce angostura (mixing-glass, coppetta da cocktail)
    ALASKA: 3/4 gin, 1/4 chartreuse gialla (shaker, coppetta da cocktail)
    ALEXANDER: 1/3 cognac, 1/3 crema di cacao, 1/3 crema di latte (shaker, coppetta da cocktail)  
    ANGEL FACE: 1/3 dry gin, 1/3 apricotbrandy, 1/3 calvados (shaker,coppetta da cocktail)
    BACARDI: 2/3 rum bacardi, 1/3 succo di lime o limone, 1 goccia di granatina (shaker, coppetta da cocktail)
    BAMBOO: 1/2 sherry, 1/2 vermouth dry, 1 goccia di orange bitter (mixing-glass, coppetta da cocktail) BENTLEY: 1/2 calvados, 1/2 dubonnet (shaker,c oppetta da cocktail)        
    BETWEEEN THE SHEETS: 1/3 brandy, 1/3 cointreau, 1/3 rum bacardi 1 goccia di succo di limone (shaker, coppetta da cocktail)
    BLOCK AND FALL: 1/3 brandy, 1/3 cointreau, 1/6calvados, 1/6 assenzio (shaker,coppetta da cocktail) BLOODY MARY: 1 bicchierino di vodka, 2 gocce worcestershire sauce, succo di pomodoro freddo (direttamente nel tumbler)
    BOBBY BURNS: 1/2 scotch whisky, 1/2 vermouth rosso, 3 gocce di bénédectine (mixing-glass, coppetta da cocktail, sprizzo di scorza di limone)
    BOMBAY:   1/2 brandy, 1/4 vermouth dry, 1/4 vermouth rosso, 2 gocce curaçao, 1 goccia di assenzio – poi sostituito dal pernod (shaker, coppetta da cocktail)
    BRONX: 1/3 dry gin, 1/3 succo d’arancia, 1/6 vermouth dry, 1/6 vermouth rosso (shaker,c oppetta da cocktail)
    BROOKLYN: 2/3 rye whiskey, 1/3 vermouth rosso, 1 goccia di maraschino, 1 goccia di amer picon (mixing-glass,coppetta da cocktail)
    CARUSO: 1/3 dry gin, 1/3 vermouth dry, 1/3 crema di menta verde (shaker, coppetta da cocktail
    CASINO:   3/4 dry gin, 1/12 maraschino, 1/12 orange bitter, 1/12 succo di limone (shaker, coppetta da cocktail, ciliegina rossa)
    CLARIDGE: 1/3 dry gin, 1/3 vermouth dry, 1/6 apricot brandy, 1/6 cointreau (mixing-glass,coppetta da cocktail)
    CLOVER CLUB: 2/3 dry gin, 1/3 granatina, succo di 1/2 limone, albume di 1/2 uovo (shaker, doppia coppetta da cocktail)
    CZARINA: 2/4 vodka, 1/4 vermouth dry, 1/4 apricot brandy, 1 goccia di angostura. (mixing-glass, coppetta da cocktail)
    DAIQUIRI: 3/4 rum bianco, 1/4 succo di limone, 3 gocce di sciroppo di zucchero (shaker, coppetta da cocktail)    
    DERBY: 2 gocce si peach bitter, 2 germogli di menta fresca, 1 bicchierino di dry gin – 50 gradi (shaker, coppetta da cocktail o old fashioned, decorare con i germogli di menta)
    DRY MARTINI: 3/4 dry gin 1/4 vermouth dry (mixing-glass, coppetta da cocktail, sprizzo di scorza di limone)
    EAST INDIA: 3/4 brandy, 1/8 curaçao, 1/8 succo di pompelmo, 2 gocce di angostura (shaker, coppetta da cocktail, ciliegina rossa)
    GIBSON: 5/6 dry gin, 1/6 vermouth dry (mixing-glass, coppetta da cocktail, cipollina)
    GIN AND IT: 1/2 dry gin, 1/2 vermouth rosso (coppetta da cocktail direttamente)

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Perché si chiama Martini Cocktail

    Dal Martinez, che a sua volta si è evoluto dal Manhattan, il lignaggio del Martini Cocktail si fa ingarbugliato soprattutto dalla nascita delle numerose varianti come Marguerite, Martine, Martigny, Martina, Martineau e Bradford à la Martini. Confusi? Qui, trovate il perché si chiama Martini Cocktail.

    Il Martini Cocktail e la letteratura del ‘900

    Non avevo mai bevuto nulla di così bello e pulito”. In tanti sostengono il pensiero sul Martini Cocktail di Frederic Henry, il protagonista in Addio alle armi di Ernest Hemingway. Non ci sono dubbi sul motivo. Il Martini Cocktail è l’emblema di una professione, è il re di tutti i drink.

    Elegante, sontuoso, simbolo di perfezione servito nell’iconico bicchiere a forma di V, è il drink più famoso della storia del bere miscelato e celebrato nella letteratura del ‘900. Arte pura per chi lo prepara e piacere unico per chi lo assaggia, il Martini Cocktail ha una lunga e controversa storia.

    Soprattutto per quanto riguarda il nome. Se vi state domandando infatti perché si chiama Martini Cocktail, qui potete trovare qualche risposta ai vostri dubbi.

    Perché si chiama Martini Cocktail

    Cocktail pre-dinner realizzato in stir & strain, come ogni drink leggendario che si rispetti, il Martini Cocktail ha origini incerte. Anzi, ha molte attribuzioni soprattutto per quanto riguarda il nome. Non si sa chi sia di preciso il suo ideatore, né quando sia nato con certezza. Sappiamo però che “Martini” è il nome di un noto vermouth torinese, ingrediente presente nel drink, anche se nelle prime ricette non si menziona mai questo brand.

    Il Martinez

    Sembra invece meno fondata la storia che assegnerebbe l’invenzione del Martini Cocktail a un certo barman Martini che, da dietro al bancone del Knickerbocker di New York, nel 1906 lo avrebbe fatto provare a John D. Rockefeller. Altre attribuzioni vedono invece scomodare il barman ligure Queirolo il cui cognome della madre sarebbe appunto Martini.

    Altre teorie ancora (di sicuro più convincenti vista la somiglianza di ingredienti), farebbero discendere il Marini Cocktail al Martinez di Jerry Thomas proposto però soltanto nella versione del suo libro pubblicata nel 1887.

    Due i motivi. Per il nome leggermente storpiato dall’inglese all’italiano e la ricetta che prevede una base di gin, vermouth dolce, maraschino e bitter, con una fetta di limone e due gocce di sciroppo.

    Martini Cocktail e la sua discendenza

    Restando sempre legati a una discendenza nominale, il Martini Cocktail sembrerebbe unito a drink nati tra il 1882 e il 1910 come Marguerite, Martine, Martigny, Martina, Martineau e Bradford à la Martini. Drink ribattezzati ma che, nel nome e nel gusto ricordano l’originale a base vermouth e gin.

    Più diretta invece è l’evoluzione che lo lega al Manhattan. Come un Martinez che muta in un cocktail molto più secco e moderno, c’è anche chi sostiene, non senza buone ragioni, che derivi dal cocktail del 1874 i cui ingredienti sono whiskey e vermut rosso.

    Citazioni “alte”

    Non è tutto: secondo Lowell Edmunds, autore di Martini Straight Up, la prima ricetta del Martini Cocktail sarebbe invece quella pubblicata da O.H. Byron nel 1884 nel suo “The Modern Bartender” i cui ingredienti sono due schizzi di Curacao, 2 gocce di angostura, mezzo bicchiere di gin e mezzo di vermouth italiano.

    Dunque, tra tante teorie sul nome e assonanze di gusto si saprà mai la verità su questo cocktail? Come sostiene il mixologist Mauro Lotti: “La forza del Martini Cocktail sta esattamente qui. Nessuno avrà mai l’ultima parola e questo gli garantisce la vita eterna”. Più che un cocktail una profezia.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Dai Cocktail al Mixologist

    Se oggi possiamo preparare e bere tanti fantastici drink, lo dobbiamo alla creatività umana di grandi personaggi della storia, da Antonio Carpano e Jerry The Professor Thomas. In questo articolo scopriremo la storia dei cocktail, e le grandi personalità che ne hanno fatto parte. 

    Storia dei cocktail: le origini

    L’anno zero di questa storia può essere definito il 1786, anno in cui viene inventato il vermouth dal distillatore italiano Antonio Carpano. Da allora, si diffonde nei caffè europei la moda del vermouth come aperitivo, favorendo la nascita dei primi miscelati. 

    Fu così che qualche anno dopo, nel 1806, e più precisamente sul settimanale Balance & Columbian Repository, appare per la prima volta la parola “cocktail”, definito come “bevanda stimolante composta da liquori di vario tipo, zucchero, acqua e amari”. Questi “liquori” erano generalmente distillati ottenuti dal vino, dall’uva o dalla frutta, come Brandy, Grappa, Acquavite e Cognac, e chiaramente il Vermouth, che stava ormai spopolando come aperitivo in tutta Europa. La grande fortuna dei cocktail, così come venivano intesi all’epoca, tramonta però in seguito a un’ondata di fillossera, che assesta un terribile colpo alla produzione vinicola. 

    Come vedremo più volte in questa storia, però, non tutto il male vien per nuocere: essendo fuori uso i “liquori” allora utilizzati, questi vengono sostituiti da spiriti nazionali e internazionali come Gin, Vodka e Rum, che vengono appunto miscelati con succhi di frutta, bitter e spezie. E possiamo finalmente dire che, proprio ora, nasce la grande arte della Miscelazione. 

    The Professor

    E’ proprio qui che entra in gioco un altro grande personaggio della storia dei cocktail: Jerry Thomas, uno dei mixologist più apprezzati della storia. Infatti, Thomas non era solo un ottimo bartender e un genio della mixology, ma era un vero e proprio professionista a tutti gli effetti, tant’è che pubblicò nel 1862, la Bar-Tenders Guide (How to mix drinks), il primo volume della storia dedicato alla miscelazione, che contribuì a diffondere enormemente il sapere attorno a questa nuova materia. 

    Storia dei Cocktail e Proibizionismo

    Nel 1920, troviamo però un altro forte ostacolo nella nostra storia dei cocktail, che si rivela tuttavia paradossalmente una grande spinta in avanti: il Volstead Act sancisce l’illegalità degli alcolici negli Stati Uniti, dando inizio al proibizionismo. 

    Ciò tuttavia permette la diffusione degli speakeasy, dove gli alcolici di contrabbando di scarsissima qualità necessitavano della creatività umana per migliorarne il sapore: nascono così tecniche di aromatizzazione innovative che ancora oggi vengono utilizzate dai bartender di tutto il mondo. 

    Inoltre, la grande fuga all’estero dei mixologist, dà il via all’internazionalizzazione dell’arte della mixology americana, che si fonde alla qualità europea delle materie prime, dando inizio a una fiorente e creativa epoca di sperimentazioni.

    Storia dei Cocktail e futurismo

    Se vogliamo parlare di sperimentazioni, in ogni forma d’arte (quale è la mixology) non possiamo non menzionare il futurismo. Nel movimento di Marinetti la stravaganza, nei cocktail come in qualsiasi altro aspetto, di certo non mancava, così come la più totale libertà, che si concretizzava nelle famose “poli-bibite”. 

    Da allora, la fama dei cocktail non ha smesso di crescere, anche grazie all’iconicità creata dal cinema, e da scene di famosissimi film come 007, che rese il Martini un vero e proprio status-symbol da celebrità. 

    Siete appassionati di cocktail e volete imparare a prepararli? Volete scoprire la storia del vostro cocktail preferito? Vi aspettiamo al nostro corso di Barman Basic  E se il vostro mito è il Professore Jerry Thomas, non vi resta che iscrivervi al nostro corso di Mixologist ! 

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    DALLA DEVASTAZIONE DEL GIN AD OGGI

    Quella che stiamo vivendo oggi è una sorta di rinascita del gin.


    La storia del gin è infatti molto travagliata. Dalle origini incerte e nebulose in poi, è stata un intreccio romanzesco di vicende legate all’ uomo, alla medicina, alla politica che hanno avuto come sfondo, il cambiamento negli ultimi secoli, degli usi e costumi della nostra società. Le proprietà benefiche della pianta di ginepro sono note all’ uomo da tempi immemorabili. Considerato dalla medicina popolare un rimedio naturale per la cura di diversi disturbi, testimonianze storiche ne certificano l’ utilizzo già da parte dei Romani e dei Greci.

    I primi riferimenti storici in materia di distillazione di questa pianta, arrivano dall’ Italia. Precisamente da Salerno e vedono protagonisti i monaci ( sempre loro ! ) della Scuola Medica Salernitana. Nella raccolta di trattati del 1055, il Compendium Salernitanum, sono i primi a far riferimento a un distillato di vino e bacche di ginepro. Opera questa frutto di studi ed esperimenti per approfondire le proprietà mediche del ginepro.

    Da questo momento sono sempre più frequenti gli accenni alle proprietà benefiche e curative del ginepro. Nel 1200/1300 con le prime distillazioni vere e proprie di acquavite con queste bacche, se ne iniziano a conoscere e apprezzare anche i benefici “spirituali”. Si inizia a consigliarne l’uso anche al di fuori dall’ ambito medicale.

    DA MEDICINALE A TONICO PER LO SPIRITO

    Grazie alle proprietà drenanti che favorivano una migliore circolazione del sangue, l’ uso delle bacche di ginepro a scopo medicinale era molto diffuso nei Paesi Bassi. Utilizzato spesso come rimedio contro la gotta e i reumatismi, problemi che affliggevano i ricchi olandesi dell’ epoca. Molte pubblicazioni provenienti quasi tutte dai Paesi Bassi, avvalorano la tesi che la paternità di questo distillato sia da ricercare proprio in questi luoghi.

    Alcuni la attribuiscono al medico di Anversa Philippus Hermanni, che nel suo libro “A Constelijck Distileer boek” dal 1552 menziona l’Aqua juniperi. Altri ancora identificano in un medico dell’Università di Leida, Francisco Della Boe (noto come Franciscus Sylvius), il primo ad aver creato il Genever nel 1650. Un distillato di alcol e oli essenziali di ginepro creato con l’intento di curare i soldati olandesi che si ammalavano di febbre nelle Indie Orientali.

    A chi sia da attribuire la paternità del gin rimane difficile da stabilire,. Il dato certo è che già nel 1585, fonti storiche riferiscono che nei Paesi Bassi, un distillato di ginepro veniva utilizzato come medicinale ma anche come tonico corroborante per lo spirito.

    GLI INGLESI SCOPRONO IL GIN

    Nel 1585 la regina d’ Inghilterra Elisabetta I Tudor, decise di appoggiare la Repubblica delle Sette Province Unite ( gli odierni Paesi Bassi ) impegnata in una lotta politico-economica-religiosa per l’ indipendenza dai dominatori spagnoli. I soldati inglesi inviati in questi territori, impararono a conoscere il gin, che venne soprannominato Dutch courage (coraggio olandese ). Una versione afferma che i soldati inglesi utilizzassero il genever (o gin olandese) per i suoi effetti calmanti prima della battaglia e per proteggersi dal freddo.

    Un’altra versione vuole che ad utilizzarlo come tonico e per infondersi coraggio fossero i soldati olandesi. Quale sia la verità, poco importa, gli inglesi si innamorarono di questo distillato e lo importarono in patria. L’ introduzione di questa bevanda in Inghilterra portò alla creazione del gin. Nome che pare derivi dall’abbreviazione di genever e da un errore di pronuncia. Gli inglesi infatti pronunciavano “i” la prima “e” contenuta nel nome genever.

    LA GIN CRAZE

    La situazione si fece presto drammatica in tutto il paese. iniziò un periodo della storia del gin noto come “Gin Craze”, nel quale il distillato ebbe un impatto devastante sulla società. Londra viene descritta come un città degradata e fuori controllo con la maggior parte della popolazione ubriaca dalla mattina alla sera. Si stima che in questo periodo vi fossero più di 7000 negozi per la vendita del distillato. A questi si univano un numero imprecisato di distillatori e produttori casalinghi illegali. Il gin scorreva a fiumi per le strade di Londra.

    LE BETTOLE DEL GIN

    Nelle cosiddette “bettole del gin”, per la prima volta le donne potevano bere assieme agli uomini. Questo fece nascere ben presto la convinzione che molte di loro, annebbiate dai fumi alcolici, finissero per trascurare i figli, arrivando anche a prostituirsi. Per questo motivo il gin era conosciuto come “Mother’s Ruin”, la rovina della madre. Molti distillati avevano nomi con un chiaro riferimento al consumo femminile, tipo “Ladies Delight”, Mother Gin” o “Madame Geneva”. A Londra nel 1723 e per il decennio successivo, il tasso di mortalità superò quello di natalità. Una terrificante percentuale del 75% di bambini moriva prima di arrivare ai 5 anni di età. Molti dei quali nascevano con deformazioni da sindrome feto-alcolica .

    La diffusione incontrollata del distillato portò ad un forte aumento del tasso di alcolismo, soprattutto nella popolazione più povera. I più svantaggiati si rifugiavano nel gin per sfuggire all’ alienante lavoro nelle fabbriche, agli stenti dovuti alla vita quotidiana, povertà, freddo, malattie e fame.

    La facilissima reperibilità e il basso costo fecero diventare il gin, valvola di sfogo e rifugio contro tutti i mali e i disagi della società, con conseguenze disastrose. Il suo consumo fu accusato di essere la causa di miseria, violenza e crimine crescente, aumento della prostituzione e alta mortalità.

    I GIN ACTS PROVANO A CAMBIARE LA STORIA DEL GIN

    Il Parlamento britannico nel 1729, nel tentativo di arginare questo degrado sociale, introdusse il primo degli 8 Gin Acts,. Leggi e clausole inserite in altri atti legislativi, che miravano a ridurre il consumo di gin, aumentando la tassazione sulle vendite e sulle licenze.
    Questo provvedimento finì per danneggiare i distillatori legali e incrementò il commercio clandestino. Venne abrogato e sostituito con il 2° Gin Act nel 1733, che mirava a eliminare le vendite di gin da ambulanti e negozi generici a vantaggio delle taverne. Anche questo secondo atto si dimostrò inefficace, nonostante fosse il primo a fare affidamento su informatori professionisti per la sua applicazione. Non impedì a migliaia di case londinesi di trasformarsi in distillerie abusive e bettole malfamate.

    INTRUGLIO MORTALE

    E’ necessario chiarire che questo gin, non è paragonabile al distillato moderno che conosciamo e neanche al Genever olandese che gli inglesi avevano importato molti anni prima.
    Quello che veniva distillato a Londra era un gin con un elevatissimo grado alcolico. Spesso alterato con trementina e acido solforico, sostanze che oggi sono utilizzate nell’ industria per produrre solventi per vernici, batterie, fertilizzanti, quindi dannosissime per la salute, oggi ma naturalmente anche allora.
    Il consumo di questo intruglio londinese era infatti causa di macchie e ustioni sulla pelle, infiammazioni di occhi e bocca , nausea e vomito e portava di frequente alla cecità.

    Una vera e propria sciagura, una piaga sociale come testimoniato da un episodio che portò a un famoso processo del 1734. Una donna di nome Judith Dufour fu accusata e condannata a morte, per aver soffocato con un fazzoletto la figlia Mary di due anni e aver venduto i suoi vestiti per procurarsi del gin.

    In un altro caso, una anziana bambinaia, Mary Eastwick, in uno stato di torpore indotto dal gin, si sedette e si addormentò vicino al camino, con un bambino in braccio. Il piccolo cadde e i suoi vestiti presero fuoco facendolo morire bruciato.

    PROTESTE E SDEGNO DELL’ OPINIONE PUBBLICA

    Le proteste e lo sdegno dell’ opinione pubblica aumentarono a tal punto che il governo, guidato dal primo ministro Robert Walpole, fu costretto a intervenire con un nuovo e più restrittivo Gin Act. Emanato nel 1735, prevedeva una tassa di 20 scellini per gallone e una licenza annuale di 50 sterline per tutti i venditori di gin. Come gli atti precedenti, mirava a proibirne la vendita in locali non atti alla somministrazione e a punire con la galera i distillatori casalinghi.

    Anche questo provvedimento si basava su informatori ma non ottenne i risultati sperati. Si rivelò immensamente impopolare, provocando disordini, rivolte e dure repressioni sociali. Portò alla chiusura delle piccole distillerie artigianali incapaci di pagare l’elevatissima tassa, favorendo ancora di più il prosperare di contrabbandieri e distillatori clandestini.
    Negli anni successivi, gli atti legislativi non riuscirono a frenare il dilagante abuso di gin. Nel 1743 la produzione era aumentata fino a raggiungere il massimo storico di 8.000.000 di galloni imperiali (36.000.000 l). L’ applicazione della legge era considerata impossibile e le tensioni sociali sfociavano in episodi di violenza sempre più frequenti, spesso vedevano protagonisti gli informatori del governo, che venivano aggrediti e uccisi dalla folla inferocita. La storia del gin era ancora legata a violenza e criminalità.

    L’ impegno inglese nella guerra di successione austriaca del 1740/1748, obbligò il Parlamento britannico ad aumentare le entrate per far fronte allo sforzo bellico. Con il Gin Act del 1743 il costo della licenza per i rivenditori di gin al dettaglio, venne abbassato a una cifra accessibile da permettere di svolgere questa attività legalmente. Aumentava le accise e proibiva ai distillatori di vendere direttamente al pubblico.

    PRIMI EFFETTI DEI GIN ACTS

    Per la prima volta nella storia del gin iniziò effettivamente a diminuire il consumo. E’ grazie al Gin Act del 1751 ( Tippling Act ) che si stabiliscono le prime basi per una distillazione e una produzione controllata e di qualità. L’emendamento includeva il rilascio delle licenze solo a taverne, birrerie e locande. Proibiva ai distillatori di vendere gin a commercianti non autorizzati, allo stesso tempo, aumentava leggermente i dazi sugli alcolici distillati. Questi provvedimenti portarono alla chiusura di tutti i piccoli venditori, riducendo di molto la disponibilità di gin.

    Per sollecitare un nuovo intervento del governo che si concretizzò appunto con il Gin Act del 1751, nello stesso anno vennero pubblicate una serie di stampe dell’ artista William Hogarth, pittore, incisore e critico satirico della società dell’ epoca. Queste opere di propaganda si pensa siano state commissionate dal magistrato e scrittore Henry Fielding. Vennero utilizzate a sostegno di una sua inchiesta “An Inquiry into the Causes of the Late Increase of Robbers, and Related Writings”, sull’ aumento della criminalità a Londra.

    LA FINE DELLA GIN CRAZE

    Le due stampe più famose di Hogarth sono “Gin Lane” e “Beer Street”, realizzate per essere viste una accanto all’altra, raffigurano i mali del consumo di gin in contrasto con i meriti del bere birra.
    A segnare la fine della Gin Craze, oltre alle crisi economiche di fine secolo, contribuì in maniera decisiva anche l’ inizio del fenomeno migratorio verso gli Stati Uniti. Questo fenomeno liberò tutta Europa, Inghilterra compresa, dalle classi sociali più disagiate e quindi più pericolose.
    La storia del gin in Inghilterra cambiò definitivamente nel 1757.

    Per scongiurare la carenza di pane dovuta a miseri raccolti, furono bandite le esportazioni e la distillazione di tutti i cereali, decretando la fine della Gin Craze.

    La produzione di alcolici subì una drastica riduzione. Il poco prodotto disponibile, distillato con melassa di zucchero importata, aveva un costo elevato fuori dalla portata delle classi più povere.
    Questa situazione durò fino al 1760, quando il Parlamento inglese per arginare l’ aumento delle importazioni di rum e alcolici, decise di tornare a incassare dalle imposte sui produttori nazionali. Ripristinò la distillazione del mais con imposte raddoppiate rispetto a quelle degli anni precedenti.
    Finalmente regolamentato nella distillazione e nella produzione, il gin iniziò a diventare un prodotto di qualità, rispettabile e costoso.

    LE PRIME DISTILLERIE DI GIN

    In questi anni vennero fondate distillerie storiche, che delinearono un preciso stile che diventerà poi la tipologia London Dry Gin. La Daikin (1760), acquistata nel 1870 dalla famiglia Greenall, produttrice dell’ omonimo gin e la Gordon & Company (1769). Fondata da Alexander Gordon a Londra, nell’area di Southwark, dove venne perfezionato un prodotto di qualità, utilizzando gli estratti vegetali più pregiati, per creare un gin conosciuto ancora oggi per lo spiccato aroma di ginepro. Curiosa la storia legata alla testa di cinghiale presente sull’ etichetta di qualsiasi bottiglia di gin Gordon’s. Si narra che un membro della famiglia Gordon avesse salvato il re di Scozia da un cinghiale selvatico durante una battuta di caccia. Da quel momento, i componenti della famiglia Gordon iniziarono a sfoggiare la testa di questo animale sul proprio stemma.

    Qualche anno dopo nel 1793, la famiglia Coates si unì ai distillatori Fox & Williamson. Insieme fondarono la Black Friars Distillery che iniziò la produzione del Plymouth Gin.
    L’edificio costruito attorno al 1430, un tempo era un priorato dell’ordine domenicano. Divenne una prigione nel 1536 quando Enrico VIII sciolse, privandoli dei loro beni, tutti i monasteri inglesi. La grande sala del refettorio dei frati, divenne la principale sala riunioni della città. Si dice che alcuni dei Padri Pellegrini del Mayflower, abbiano atteso qui la preparazione della nave nel porto di Plymouth, prima di partire per il Nord America il 16 settembre 1620. Da questo episodio deriverebbe la scelta della nave sull’ etichetta della bottiglia.
    Nel 1685 il vecchio monastero si trasformò in rifugio per gli ugonotti in fuga dalla persecuzioni in Francia. Rimodellato e ampliato come distilleria di gin dal 1793, è ancora oggi la casa del Plymouth Gin.

    I GIN PALACE

    Il numero di distillerie e di commercianti disposti a investire sul gin aumentò notevolmente e con loro anche la qualità del prodotto.
    Questa ripresa del commercio pubblico portò anche a una radicale trasformazione dei luoghi dove il gin veniva venduto e consumato. Se all’ inizio erano cantine o piccoli negozi da asporto o dove comunque la gente beveva in piedi, verso il 1830 fecero la loro comparsa i primi Gin Palace.

    Thompson e Fearon’s a Holborn e Weller a Old Street a Londra, furono i primi locali del Gin. Allestiti con banconi in mogano lucido, arredi del bar sgargianti, tini elegantemente dipinti, specchi decorati, il vetro acidato e soprattutto l’ immenso bagliore di luce a gas all’ interno. L’ innovazione dell’ illuminazione a gas e nuove tecniche di lavorazione del vetro, resero questi locali estremamente luminosi, contribuendo notevolmente alla loro estetica. I Gin Palace possono essere considerati dei precursori dei pub vittoriani. Elementi che ancora oggi sono validi e identificano questo tipo di locale nell’ immaginario comune. Ad esempio il grande bancone in legno, fulcro del locale, dove venivano serviti i clienti, che in piedi o seduti su alti sgabelli addossati al bancone, consumavano la bevuta.

    Nonostante fossero luoghi piacevoli ed eleganti, non erano ben visti dalla ricca borghesia e dall’opinione pubblica più colta. Venivano considerati luoghi volgari che minavano la legalità e la moralità. Per limitare la frequentazione di questi locali, il governo inglese intervenne con un atto che disciplinava la produzione e la vendita di birra dietro pagamento di una licenza, il Beerhouse Act 1830, noto come il “Duke of Wellington Beer Act”.

    NASCITA DELLE BEER HOUSE


    Chiunque, dietro pagamento di una piccola cifra di 2 ghinee a un magistrato, poteva ottenere la licenza per aprire una birreria. Il permesso veniva concesso per sei giorni alla settimana, con l’eccezione della domenica e si potevano vendere solo birra e sidro

    La birra diventò il prodotto del popolo, l’ alcolico delle masse, con un impatto sui costumi della società, sulla morale e soprattutto sull’ ordine pubblico, molto meno devastante degli anni folli della Gin Craze.
    Questi cambiamenti sociali e politici, trasformarono definitivamente il gin, da intruglio mortale e disgustoso a distillato di pregio. Apprezzato da intenditori appartenenti alle classi sociali più abbienti, consumato in locali esclusivi ed eleganti.

    L’intenzione era quella di aumentare la concorrenza nella produzione e vendita di birra, per portare ad un abbassamento dei prezzi e favorirne il consumo rispetto agli altri alcolici. Questa manovra portò all’apertura delle Beer House, che si diffusero a macchia d’olio in tutto il paese, nel 1841 vennero rilasciate 45.500 licenze. Molte delle nuove birrerie nei loro nomi, rendevano onore al re Guglielmo IV ( l’ approvazione di questa legge avvenne sotto il suo regno) e al duca di Wellington, celebrando le loro gesta nelle insegne dei locali.

    LA CONTRAPPOSIZIONE STORICA TRA BIRRA E GIN

    La contrapposizione, durata secoli, tra birra e gin operata dal governo inglese, che naturalmente in base alle proprie esigenze storiche ha favorito il consumo di uno o dell’ altro, con lo scopo di arricchire le casse reali, senza curarsi troppo delle conseguenze drammatiche che le varie leggi avrebbero avuto sulle vite dei sudditi, viene chiusa nel 1869 dal “Wine and Beerhouse Act”.

    Con questo provvedimento vengono adottati nuove e più severe restrizioni sulla vendita pubblica di birra. Viene introdotto il pagamento di una normale licenza di vendita, obbligando le innumerevoli birrerie ad abbandonare la loro dimensione “casalinga” per trasformarsi in veri e propri locali pubblici. Questa licenza dava la possibilità di somministrare oltre alla birra, anche tutte le altre bevande alcoliche, quindi con il vantaggio di poter vendere gin, whisky, vino e qualsiasi altro spirito ad alta gradazione.
    Nascono così i pub in stile vittoriano, termine utilizzato per identificare questi locali caratteristici di fine ottocento. Una spettacolare fusione di elementi, spazi e arredi caratteristici ereditati dai Gin Palace e dalle vecchie birrerie.

    EPOCA VITTORIANA

    Il lungo regno della regina Vittoria, dal 1837 al 1901, è stato un periodo della storia inglese ricco di cambiamenti e di sviluppo con notevoli progressi nel mondo dell’ arte e della scienza. Simbolo sia di stabilità, espansione commerciale e innovazione per l’Inghilterra, ma anche di profonde contraddizioni sociali, psicologiche e culturali.
    Questi anni di sviluppo e benessere, furono caratterizzati da uno stile nuovo e inconfondibile, che rispecchiava a primo impatto proprio questo benessere. Rendeva immediatamente identificabile tutto ciò che era inglese, con elementi tipici che ancora oggi sono ricercati e utilizzati, lo stile vittoriano.

    Alcuni dei pub vittoriani, presenti ancora oggi, sono tra i più belli d’ Inghilterra, riconoscibili già dall’ architettura esterna. Custodiscono al loro interno tutta la tradizione inglese, avvolgendo chiunque vi entri in un atmosfera unica, fuori dal tempo, fra storia e leggenda.

    Le grandi vetrate esterne, gli interni suggestivi e curati nei minimi particolari, i tendaggi, le lampade e i lampadari, le pareti arricchite con specchi e quadri, stucchi e decori floreali, ferro battuto e legno, materiale per eccellenza usato in questi locali. Legno e ferro lavorati ad opera d’ arte per creare capolavori di artigianato, trovano la loro massima sublimazione nella zona bar. Il bancone e gli alti sgabelli, le sedie e i tavoli, le colonne e tutti i mobili riccamente intagliati, conferiscono a questi locali la massima espressione di esclusività ed eleganza per un pub.

    Anche grazie alla nascita di questi locali, il gin si è ritagliato uno spazio importante nel mondo dei distillati. La sua storia così travagliata che ha attraversato secoli di guerre, carestie, lotte sociali e politiche, influenzando le abitudini e i costumi di intere generazioni di inglesi e non solo, si è evoluta fino ai giorni nostri. Nato nei Paesi Bassi e adottato dagli inglesi ha conquistato il mondo.

    IL GIN OGGI

    Nuove distillerie con prodotti innovativi e di qualità, hanno affiancato vecchi e gloriosi marchi. Il gin sta vivendo una rinascita a livello planetario e sembra proprio che le pagine più gloriose della sua storia debbano ancora essere scritte.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Tecnica di Chiarificazione di un Drink

    La tecnica della chiarificazione porta a cambiare la texture dei cocktail. Tre i metodi facilmente applicabili al bar: per filtraggio, gelificazione o separazione. I consigli su come procedere, purché non si abbia fretta.

    Molto spesso appare, nella descrizione delle ricette, il termine “chiarificato”. Altrettanto spesso s’incontrano opinioni discordanti sull’argomento da parte degli operatori del settore. La chiarificazione offre alcune opportunità che da alcuni sono visti come vantaggi e da altri come superflue sofisticazioni. Innanzitutto, altera la texture di un drink, rimuovendone i solidi all’interno e, di conseguenza, riducendone il corpo. Le sensazioni tattili, date dalla consistenza, sono un aspetto fondamentale di un cocktail: pensate a come una purea troppo densa dia fastidio al palato, o come un Bloody Mary poco denso risulti strano e talvolta sgradevole.

    Sinteticamente, la chiarificazione è un processo che rimuove le particelle sospese all’interno di un liquido e separa i liquidi dai solidi. Vi sono tre tipologie di chiarificazioni: tramite filtraggio, gelificazione o separazione di densità. Ognuna di queste ha tempistiche, costi e vantaggi differenti. Senza volersi schierare tra gli amanti e i detrattori di questa tecnica, lo scopo qui è fornire una panoramica delle opzioni applicabili, in un bar che non abbia la possibilità di accedere ad attrezzature particolarmente costose. La premessa è che occorrerà armarsi di pazienza, poiché i procedimenti tendono a essere lunghi. Ma con un’adeguata programmazione delle preparazioni giornaliere e settimanali del bar saranno facilmente gestibili.

    Filtraggio

    Chiarificare tramite l’utilizzo di un filtro a maglia stretta è un primo approccio, non tuttavia esente da complicazioni. In primo luogo i filtri che comunemente si possono trovare – come per esempio quelli da caffè o le garze di panno – non sempre sono a maglia sufficientemente fine da impedire il passaggio di tutta la parte solida. Inoltre, hanno la tendenza a intasarsi velocemente, rendendo lo scorrimento del liquido molto lento, e costringendoci a cambi o pulizie frequenti del filtro. In generale, è consigliato adottare questo metodo per quantità limitate di liquido e quando si ha la possibilità di monitorarlo costantemente, così da assicurarsi che il filtraggio stia proseguendo al meglio.

    Gelificazione
    Chiarificare utilizzando dei gel è un metodo più efficace, anche se richiede alcuni passaggi aggiuntivi. A livello pratico, consiste nell’intrappolare il liquido in una sostanza gelificante, per poi farlo fuoriuscire. Le particelle che rendono il liquido torbido rimangono all’interno del gel, mentre ciò che esce è limpido. L’esempio più comune lo si ha in cucina, quando si utilizzano gli albumi per filtrare il consommé di carne. Purtroppo, nel nostro caso, non è una strada percorribile, perché richiede un’esposizione prolungata al calore che potrebbe danneggiare il sapore del composto. Un metodo largamente utilizzato è quello del congelamento/decongelamento, che consiste nell’aggiungere una gelatina all’interno del liquido, lasciarlo congelare e poi decongelare gradualmente, munendosi di un filtro tra il blocco congelato e la parte che si vuole far percolare. In questo modo, le parti solide rimarranno intrappolate nel gel al di sopra del filtro, mentre quelle liquide scorreranno attraverso di esso.


    Per quanto non sia l’unico, il gelificante più indicato e di facile reperibilità per questa tipologia di chiarificazioni è l’agar-agar che è a base di alghe marine (per cui, anche vegan-friendly). L’unica vera controindicazione è che l’agar-agar, per essere attivato, va sciolto in un liquido bollente per alcuni minuti, e questo calore è dannoso per alcuni ingredienti. La soluzione è dividere in due parti il quantitativo di prodotto che si desidera chiarificare.
    La prima, corrispondente al 25% del totale, sarà quella al cui interno vanno disciolti due grammi di agar-agar, l’altra sarà invece la parte da aggiungere quando l’alga avrà fatto il suo dovere. Con succhi come arancia o zenzero, che non sono particolarmente sensibili al calore, questo processo è fattibile. Con prodotti come lime o puree (ma anche con ingredienti alcolici, che si rovinerebbero se portati ad alte temperature) si esegue lo stesso procedimento, ma sciogliendo l’agar-agar in acqua (sempre 2 g per chilo), invece che direttamente nel composto. Si avrà una piccola diluizione nel risultato finale, ma è un prezzo ragionevole da pagare per avere un bel succo di fragola o un bourbon alle pesche chiarificate. Una volta uniti i due liquidi, si versa in un recipiente sufficientemente largo (una teglia dai bordi alti, ad esempio) e si lascia che il gel solidifichi il composto (questo avviene quando avrà la consistenza di una gelatina molto densa). Poi si mette tutto in freezer fino a che diventa un blocco ghiacciato e omogeneo. Quando sarà pronto, si pone il blocco su un panno filtrante disposto sopra a un recipiente adeguato e si lascia colare. L’operazione richiederà diverse ore, per cui, per evitare che con il passare del tempo il succo si ossidi o rovini, è meglio che il tutto avvenga in frigo.

    Separazione di densità
    La terza tecnica consiste nello sfruttare le densità diverse all’interno del liquido ed applica un principio fisico molto semplice: le particelle sospese sono più dense del liquido in cui sono disciolte, per cui cadranno in fondo ad esso. Sarà quindi possibile, utilizzando un imbuto separatore, dividere le due parti ed estrarne quella chiarificata. Purtroppo non sono molti i liquidi che hanno particelle così grandi al suo interno, da consentire una separazione rapida. Un succo di carota o di mela si separerà velocemente, ma molti altri prodotti non lo faranno. In generale, quei succhi che per loro natura sono leggeri (mela, cetriolo, arancia…) riusciranno a separarsi in qualche ora, ma per composti più densi come le puree ci sarà bisogno di un aiuto aggiuntivo. Come insegna Dave Arnold nel suo libro Liquid Intelligence, si dovrà fare uso di un gruppo di enzimi derivanti dai funghi chiamato “Pectinex Ultra SP-L”, facilmente reperibile on line. Utilizzandone due grammi per litro, agiranno sulla pectina e la cellulosa all’interno dei liquidi e ne faciliteranno la separazione.
    A questo punto basterà mettere il succo in un imbuto separatore, lasciarlo per alcune ore in frigo, e dividere le componenti. L’SP-L può essere impiegato anche insieme ai gelificanti: li aiuterà a rilasciare più sostanza liquida, con il risultato di una resa finale maggiore. Infatti, il vero svantaggio di queste chiarificazioni è la quantità di liquido che si perde nel processo. Da un chilo di prodotto è facile aspettarsi che circa 1/4 rimanga “intrappolato” nel gel e che non sia chiarificabile (ma resta comunque utilizzabile nella sua versione opaca).

    Quelli descritti sono tre metodi di chiarificazione applicabili e poco costosi. È tuttavia buona norma, quando si decide di chiarificare qualcosa, domandarsi se ha senso nel contesto in cui lavoriamo. I procedimenti possono essere lunghi e occupare spazi ingombranti (per esempio in freezer o frigo), per cui è meglio fare bene i conti con quello che desideriamo ottenere, prima di decidere, per esempio, di avere sul menu vari cocktail con succhi chiarificati. Una cosa è certa…ora sapete cosa fare per iniziare! *

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Bevande Futuriste lancia i mix di frutta e sciroppi “Prohibito”, the new way of mixing

    Presentata alla Florence Cocktail Week 2021 la nuova linea per i bartender firmata Bevande Futuriste. Il lab a portata di mano con mix di frutta, sciroppi zuccherini, sciroppi premium Made in Puglia, una base madre con 15 essenze, uno sciroppo al burro.

    Si è tenuta a Firenze, nell’ambito della sesta edizione della Florence Cocktail Week, la presentazione di Prohibito – The new way of mixing, nuovo brand di Bevande Futuriste, nuova esclusiva mixability frutto di un lavoro di due anni e di una stretta collaborazione con i migliori bartender italiani. Sette mix di frutta, due sciroppi zuccherini, tre sciroppi premium Made in Puglia, una base madre con 15 essenze, uno sciroppo al burro, il Tiki Batter. Questa la squadra di prodotti presentata presso Ditta Artigianale da Samuele Ambrosi del Cloakroom Cocktail Lab di Treviso, da Gianni Zottola, esperto di miscelazione Tiki e Tropical e dal brand ambassador ProhibitoGianluca Fraccascia. Un nome, Prohibito, che strizza l’occhio ai mitici anni Trenta, quelli del proibizionismo americano, che oggi parla la lingua dei drink più attuali, ma anche quelli del futuro. Prohibito rappresenta il fascino di poter sperimentare, innovare e personalizzare con pochi semplici gesti alla portata di tutti.

    Sette prodotti natural fruit for mix, con fino al 90% di pura frutta, ingredienti naturali e senza coloranti, ideali per cocktail, frozen drink, granite e frullati. Gusti che spaziano dal mirtillo nero alla pesca, dalla fragola alla melagrana, dal frutto della passione al cocco e al lampone. Due gli sciroppi zuccherini naturali, ideali per per dare un tocco di sana dolcezza a drink e cocktail, uno di agave biologico, con un basso indice glicemico e uno di zucchero invertito che, grazie all’enzima invertasi ha un potere dolcificante maggiore rispetto allo zucchero semplice. Sciroppi con ingredienti ricercati, espressione delle migliori eccellenze regionali italiane. Si parte con tre gusti premium Made in Puglia esclusivi, ideali per rivisitazioni di classici e garnish per la ristorazione. Lo sciroppo di cipolla rossa di Acquaviva, presidio Slow Food, coltivata in modo naturale nel rispetto della tradizione antica di Acquaviva delle Fonti. Lo sciroppo di mandorla di Toritto, presidio Slow Food della Murgia, zona in cui prendono vita varie cultivar autoctone delle migliori qualità. Infine, lo sciroppo di vino Primitivo IGT Puglia: di origine perse nella notte dei tempi e di provenienza certificata, è il vino primitivo che esprime al meglio la regione.

    Non manca una base madre da 500 ml, realizzata solo con ingredienti naturali, composto cremoso dal gusto neutro, utilizzato per la miscelazione di essenze nei cocktail. Con una base unica si può dar vita a innumerevoli combinazioni di gusti, mixando le essenze a proprio piacimento. Base madre che si accompagna a quindici essenze da 50 ml con tappo contagocce e nebulizzatore spray. Una selezione di botaniche ad altissima concentrazione, senza antiossidanti e 100% naturali con i gusti vaniglia, rabarbaro, zenzero, fiori di sambuco, violetta, cannella, bergamotto, mandarino, anice stellato, chinotto, cardamomo, ginepro, rosmarino, lime e chiodi di garofano. Le essenze della linea Prohibito sono delle vere e proprie eau de parfum naturali per aromatizzare i drink e per profumare l’atmosfera.

    Elena Ceschelli e Gianni Zottola

    In Prohibito grande l’innovazione giocata dal Tiki Batter, uno sciroppo al burro, prodotto naturale nato con lo scopo di aumentare la complessità gustativa e la succulenza di un cocktail. Ideale per l’alta miscelazione, il Tiki Batter è a tutti gli effetti una nuova frontiera esperienziale, che ha come precursori i guru del mondo Tiki, che utilizzavano proprio il burro nelle loro preparazioni afrodisiache. “Prohibito è un nome, un concetto, una missione futurista, dai valori antichi rivisti in chiave moderna – sottolinea Elena Ceschelli, direttore Marketing e comunicazione della trevigiana Bevande FuturisteParliamo ai bartender, i barman esteti della nuova generazione, amanti della sperimentazione con prodotti di qualità, che ricercano il bello in ogni dettaglio e che esigono l’eccellenza qui e ora. Quando qualcosa o qualcuno si presenta davanti ai nostri occhi, con l’etichetta Prohibito, è come se il nostro lato più avventuroso si attivasse immediatamente e volesse cogliere la sfida nel creare cocktail originali, unici e autentici”.

    Samuele Ambrosi

    BEVANDE FUTURISTE

    Bevande Futuriste nasce nel 2014 a Treviso, dopo due anni di ricerca e sviluppo sullo studio dei consumi fuori casa sulla donna di oggi, moderna e futurista. Tre soci: Alessandro Angelon, Elena Ceschelli e Alberto Zamuner, uniti da amicizia e amore per il bello in ogni cosa, con una forte esperienza nel food and beverage. Sei le linee di prodotto a cui si aggiunge Prohibito: il DiFrutta Bio, il succo di frutta bello, buono e anche bio; i succhi di pura frutta biologica T.V.Bio Smoothie; la linea Cortese, sodate premium per il bartender professionista; ama_tè, i bio ice tea da vero infuso di foglie di tè verde; Originale bio 1959, le bibite frizzanti della tradizione italiana e la nuova linea Amatisana. La missione è scritta nel manifesto Futurista l’Elogio alla Bellezza: i valori del bello per una qualità di vita migliore attraverso un assortimento di bevande naturali e bio, buone, sane, belle, assolutamente poco zuccherate. La frutta, accuratamente scelta e raccolta all’origine, è il punto di partenza, preferendo anche prodotti biologici, italiani e di provenienza controllata e certificata. Prodotti che non seguono le mode, ma propongono bellezza ed è da qui che nasce la denominazione di Futuristi, mossi da una voglia ardente di cambiare la staticità del mondo Ho.Re.Ca. tramite un gruppo di persone che divulga ogni giorno il verbo Futurista. In questi anni Bevande Futuriste hanno sostenuto il lavoro del bartender nel proporre cocktail unici e distintivi utilizzando il Made in Italy.


    + info: www.bevandefuturiste.it
    Instagram: www.instagram.com/bevande_futuriste
    Facebook: www.facebook.com/BevandeFuturiste

    sito: www.prohibitomixologist.com

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    QUALI SONO LE ORIGINI DELLO SHAKER ?

    Nel 1848, George Foster, un reporter nel New York Tribune che trascorreva le notti nei quartieri più squallidi della città alla ricerca di buone storie, rimase meravigliato dal modo in cui un barista stava facendo un drink: “Con le maniche della camicia arrotolate, e il suo viso avvolto in un bagliore di fuoco, sembrava stesse tirando fuori lunghi nastri di Julep da una tazza di metallo.”

    Parisienne

    Questa è forse stata la prima descrizione nota di uno shaker. A quel tempo, le bevande venivano mescolate con cucchiai a manico lungo oppure gettati avanti e indietro tra due bicchieri di vetro, che sicuramente rendevano spettacolo ma non facevano un’ottima miscelazione (per non parlare della confusione). Alla fine, dice David Wondrich, uno storico dei cocktail tra i cui libri ricordiamo “Imbibe!” e “Punch”, qualcuno “arrivò con la brillante idea di attaccare una tazza di metallo sopra un bicchiere che scuotendo con il ghiaccio si sigilla. Dal 1850 iniziarono a costruire shaker personalizzati interamente fatti in metallo, lega, ottone e argento placcato.”

    Lo Shaker Parisienne, che era popolare in Europa, era un elegante variante a forma di urna. Era composto da due pezzi senza uno colino e arrivò sulle scene dei bar circa 20 anni più tardi. “Gli europei vedendo quello che stavamo facendo” dice Wondrich, ” pensarono che era davvero fantastico. Tutti impazzirono per i drink americani e iniziarono ad importare gli strumenti.”

    Nel corso del 1870 gli inventori cercarono in ogni modo di migliorare il disegno di base. Uno aveva un sistema a stantuffo per la miscelazioni di sei bicchieri in una sola volta; un altro aveva prese d’aria. Ma nessuno di questi ebbe successo. Poi nel 1884, Edward Hauck di Brooklyn brevettò lo Shaker di metallo in tre parti con filtro incorporato, una configurazione che è rimasta sostanzialmente immutata fino a i nostri giorni. Divenne famoso come Cobbler Shaker (lo Sherry Cobbler, fatto di Sherry, zucchero, ghiaccio e arancia o limone, fu uno dei cocktail più popolari dell’epoca).

    Quando l’acciaio inossidabile fu inventato nei primi anni del XX secolo, divenne rapidamente il materiale di scelta per gli Shakers, un onore di cui continua a godere ancora oggi.

    Anche se gli Shaker rimangono una parte fondamentale del corredo del Barman, c’è il rischio di abuso nel suo uso. I Martini devono essere mescolati (nonostante James Bond), come dovrebbe accadere per gli Old Fashioned e Manhattan. Quando si tratta di aggiunte più recenti alla lista dei cocktail, è difficile anche per un esperto categorizzare. “Le persone stanno shakerando di tutto ai giorni d’oggi” dice Wondrich. “A volte ho guardato, mi sono grattato la testa e sperato in una birra”

    by Bartime

    Fonte: The New York Times www.nytimes.com

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    CONOSCIAMO MEGLIO “IL GIN”

    1) L’ALCOOL NEUTRO

    La maggior parte dei gin è prodotta a partire da un alcool neutro di cereale o di melassa. Nel caso di un alcool di cereale, il mosto è spesso composto da una mescolanza di cereali: mais (75%), orzo (15%), e altri cereali (10%) tra cui la segale.

    2) MODI DI PRODUZIONE

    “Distilled gin”: questo metodo permette di produrre i gin migliori. La distillazione si effettua in batch all’interno di un alambicco tradizionale. Questo alambicco è scaldato a vapore al centro di una resistenza sistemata sul fondo della caldaia. La caldaia di questo alambicco (il pot) riceve l’alcool neutro, ridotto a circa 45° – 60°. Una volta portato ad ebollizione l’alcool, i vapori che si sviluppano si impregnano degli aromi delle bacche e delle erbe aromatiche. La testa e le code di distillazione, tossiche, sono riciclate, poi ridistillate mentre il cuore è condotto al centro di imbottigliamento, per la diluizione e l’imbottigliamento.

    Aromatizzazione per infusione: il principio consiste nel sospendere nell’alambicco, sopra all’alcool, una tasca di cotone contenente tutte le erbe aromatiche, bacche di ginepro e spezie, oppure nel posarli in una “camera perforata” istallata a livello del collo dell’alambicco. Al loro contatto i vapori dell’alcool si infondono, si impregnano delle essenze liberate dalle erbe aromatiche.

    Aromatizzazione per macerazione: il principio consiste nel far macerare le bacche di ginepro, le erbe aromatiche e le spezie direttamente in un alcool neutro a 45°, lasciandole inzuppare liberamente nell’alcool oppure disponendole per 24 – 48 ore in sacchetti di cotone. Alcune distillerie filtrano la miscela prima della distillazione, per separare gli aromatizzanti dall’alcool; altre distillano il tutto, producendo un alcool particolarmente carico di aromi.

    “Compound gin”: questa tecnica si basa sulla mescolanza di un alcool neutro (di melassa più frequentemente) con un concentrato di aromi di gin (cold compounding), oppure con essenze artificiali di bacche di ginepro, spezie ed erbe aromatiche (compound essence). Questo metodo non comporta alcuna ridistillazione ed è usato soprattutto nella preparazione di gin per il consumo di massa.

    3) DILUIZIONE E FRUIZIONE
    Una volta distillato, l’alcool è messo a riposare per qualche ora in cuve, poi la sua gradazione alcoolica è via via ridotta per diluizione fino alla gradazione desiderata. La filtrazione può essere effettuata a freddo: dopo averne abbassato la temperatura a -2°, l’alcool viene fatto passare attraverso un filtro di cellulosa, per eliminare tutte le particelle rimaste in sospensione. Si possono usare altre tecniche di filtrazione come quella del carbone attivo: l’alcool si cola allora attraverso uno strato di carbone.


    «Gli stili»

    Al di là della tecnica di aromatizzazione, per macerazione, distillazione oppure per mescolanza, il gin si trova sotto diverse categorie:

    LONDON GIN (London Dry Gin): questa categoria, denominata anche “English style”, simboleggia la quintessenza del gin. Il termine “London” non esprime un’origine, ma uno stile che può essere riprodotto in tutto il mondo. I “London Gin” o “London Dry Gin” sono dei “distilled gin” a cui non può essere aggiunto alcun elemento artificiale (aromi o coloranti) se non dello zucchero e nelle proporzioni ben definite (5 g/ettolitro a 100% alc/vol).

    PLYMOUTH GIN: a tutt’oggi è l’unica denominazione d’origine che esista per il gin Dominio riservato del sud dell’Inghilterra, questo gin è prodotto da una sola distilleria situata a Plymouth, Blackfriars Distillery (Coates &Co), che detiene l’unico diritto di uso della denominazione.

    OLD TOM GIN: antenato del London Dry Gin, questo gin era molto popolare nel XVIII secolo. Più dolce e leggermente zuccherato, era inoltre carico di aromi per mascherare una base alcoolica più dura e meno pura delle basi attuali. Uno stile in via di estinzione.

    «Altri stili»

    JENEVER: cugino primo del gin, il jenever è prodotto principalmente in Belgio, in Olanda e in Germania (Dornkaat). E’ elaborato a partire da un alcool risultante dalla distillazione di un mosto di cereali (mescolanza di segale, di grano, di mais e d’orzo),come possono esserlo alcuni whisky. Il Jenever è generalmente distillato in un alambicco pot- still o a ripasso e produce un alcool più robusto del gin. Esistono due tipi di jenever: “jonge” ( giovane) e “oude” ( invecchiato) messo in fusto di rovere da 1 a 3 anni.

    SLOE GIN: liquore elaborato a partire da gin infuso con prunelle. Alcune ricette implicano un periodo di invecchiamento in fusti di rovere.

    «La degustazione»

    L’introduzione del Bombay Sapphire nel 1988 ha permesso di evolvere al gusto odierno tutte le categorie di gin. Il ritorno in auge del gin permette anche di rivisitare tutta una serie di cocktails classici e di attirare una nuova generazione di consumatori. Questi gin dai nuovi sapori allargano un po’ di più la tavolozza aromatica disponibile, perché i mixologists possano esercitare i loro talenti e comporre nuovi cocktails. Alcune marche propongono anche delle versioni invecchiate in legno, allo scopo di fare del gin un prodotto da degustare in purezza.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    I COCKTAILS MONDIALI (definiti dall’Iba dal 1961 al 2020)

    E’ il 2 novembre del 1960: i rappresentanti delle nazioni aderenti all’Iba (International Bartenders Association fondata il 24 febbraio 1951 presso il Grand Hotel di Torquay, Inghilterra, presenti 20 importanti barmen in rappresentanza di sette nazioni e che oggi raccoglie 36 associazioni distribuite nei cinque continenti), sono riuniti presso l’Hotel Scribe di Parigi per il tradizionale congresso annuale.
    L’agenda degli argomenti da dibattere comprende al sesto punto la voce “discussione della codifica delle bevande”. A prendere la parola è il compianto presidente Aibes (e Iba) Angelo Zola: a fronte del numero sempre crescente di differenti bevande miscelate, egli propone la formazione di un comitato che riduca il vasto numero di cocktail e ricette.
    Richiede ad ogni comitato nazionale di inviare le proprie preparazioni più tipiche al fine di stabilire una lista che comprenda tra i 50 e gli 80 cocktail che verranno classificati “approvati dall’Iba”. A un anno di distanza, a Olso; si ha la definizione delle “prime cinquanta ricette di cocktail approvate dalla presidenza dell’Iba”.

    Con ciò non si è inteso – come potrebbe apparire dalla traduzione letterale degli atti riportati – limitare il numero delle preparazioni miscelate, bensì codificare un ricettario a livello internazionale in grado di definire con precisione i componenti dei drink prescelti più noti e richiesti) e le loro percentuali.
    Attraverso la loro diffusione a ogni iscritto alle associazioni dei barmen delle nazioni aderenti all’Iba, per il consumatore sarà possibile richiedere e ottenere, ad esempio, uno Stinger sempre uguale un quanto a componenti, proporzioni, preparazione e servizio. Prendeva così il via la storia dei “50 mondiali”, il vangelo di ogni barman la base da apprendere, ma non solo da memorizzare, bensì studiare a fondo, analizzare poiché attraverso questo sarebbe stato
    poi possibile soddisfare al meglio ogni richiesta specifica, ma pure comprendere i parametri per la costruzione di quel patrimonio unico che è il “ricettario” proprio di ogni barman, composto di preparazioni personali e inedite, molte delle quali, grazie alla propria validità, si affermano e acquistano notorietà, una fama che spesso si spinge oltre i confini nazionali.

    Nel frattempo avviene anche che alcune preparazioni col passare del tempo non incontrino più gusto del consumatore, pertanto vengano sempre meno richieste e cadano nel classico “dimenticatoio”. Oppure, qualche barman non ci crede più, qualche barman a livello internazionale naturalmente.
    E’ così succede che nel novembre 1985 ad Amsterdam, nel corso del congresso mondiale dei barmen Iba, viene istituita una commissione cui viene affidato il compito di esaminare la realtà del bere miscelato e apportare le opportune modifiche. Modifice che puntualmente che puntualmente vengono presentate l’anno dopo (sempre in novembre) nella caratteristica località normanna di Deauville: “mondiali” passano da 50 a 73, non solo con numerosi nomi nuovi, ma anche con numerose “uscite” cui si unisce un’appendice: i 25 cocktail vincitori del “Iba’s Word Challenge”, ovvero primi classificati ai campionati mondiali che si svolgono ogni tre anni.

    E’ facile capire quale sia stato l’impegno per ogni operatore memorizzare e studiare a fondo le nuove ricette e soprattutto le modifiche di quelle rimaste. Lasciando una coda di polemiche discussioni, e in alcuni casi di rifiuta che si è protratta per alcuni anni. E siamo nel novembre del 1993 a Vienna: un’altra commissione che ha lavorato sull’onda delle critiche giunte dai bar di ogni parte del mondo (soprattutto i giovani non sapevano cosa fare: nelle scuole alberghiere gli avevano insegnato i mitici 50 cocktail in un dato modo, ora si trovano a ribaltare dosi e ingredienti) presenta così il nuovo abc del bere miscelato, i cocktail mondiali si riducono a 53 con l’aggiunta di quattro ricette analcoliche (alcune storiche, viene revisionata anche la tipologia e la denominazione di alcuni di questi. Insomma una rivoluzione che ancora oggi è in atto.

    D’altra parte dobbiamo attenerci al regolamento anche se non a tutti è gradito: le proporzioni per la quasi totalità dei casi sono rimaste fissate in decimi (lo avevano deciso il 1986), ma per fortuna l’Alexander il Grasshopper e il mitico Negroni hanno riconquistato i “terzi” con il sommo gaudio dei “beventi”. Di conseguenza con il passare degli anni sono nate diverse altre associazioni e Club di Barman, tra cui il C.C.C. (Classic Cocktail Club) di il compianto Fondatore Franco Zingales, grande cultore del mondo del bere ed allora redattore capo di Bargiornale


    VARI RICETTARI NEGLI ANNI



  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Il cocktail negroni diventa un Film

    Questo cocktail è un’autentica leggenda italiana nel mondo, fu inventato intorno agli anni ’20 nella città di Firenze, da suo ideatore il conte Camillo Negroni, la cui storia si riconosce solo e particolarmente per aver dato origine al drink che porta il suo nome. Il conte era un assiduo frequentatore del nobile Caffè Casoni sito in via Tornabuoni a Firenze, locale che poi cambiò in Caffè Giacosa e tra le altre cose poi acquistato da Roberto Cavalli, che comunque ha sempre conservato quell’atmosfera da caffè ottocentesco, quindi elegante e antico come tradizione vuole.

    Ebbene il conte Negroni un giorno chiese al barman Angelo Tesauro di cambiare drink, invece del consueto aperitivo americano voleva qualcosa di diverso e nuovo, per cui fu sostituito il seltz con il gin, che ovviamente piacque al Conte e da qui il nome, il primo “Americano alla moda del conte Negroni”, poi diventato il famoso Negroni che conosciamo oggi. Una storia semplice che nasce dall’esigenza di un singolo per poi diventare patrimonio di tutti, è chiaro che questo accade solo quando un’invenzione è funzionale e piace, ed è quel che è successo con il Negroni, cocktail famoso e consumato ovunque nel mondo, che nasce da una storia tutta italiana.

    Tre elementi alcolici per un grande cocktail, forse uno dei drink più semplici da preparare almeno in occidente, essendo composto da liquori abbastanza comuni almeno nell’emisfero occidentale, tuttavia sappiamo che il Negroni è ben apprezzato anche in oriente, probabilmente anche per via della sua italianità e origine. Non è un mistero, infatti, che il made in Italy ha vita facile ovunque, questo vale non solo per i prodotti ma anche appunto per simboli come questo, il Negroni è al primo posto tra i cocktail italiani più famosi insieme ovviamente al Bellini e altri.

    Dettagli storici del Negroni

    In pochi anni il Negroni si affiancò ai grandi cocktail anglosassoni, tanto da diventarne uno dei maggiori competitori nei gusti degli stessi americani, dunque dalla piccola Firenze verso la conquista del mondo, almeno quello di chi ama bere con gusto e classe, che non rinuncia neppure al piacere dell’eleganza, perché, come spesso un vecchio detto ricorda, “la bellezza ha sempre ragione”, ecco, il Negroni è sì bello ma anche e soprattutto buono e piacevole al palato. Un cocktail per molti ma sicuramente non per tutti, il suo gusto e sapore sono unici, particolare al punto che si ama per sempre o mai, ma sono rari i casi in cui non si apprezzi un buon drink come questo.

    L’esperienza del conte Negroni dopo vari viaggi in Inghilterra e Stati Uniti, dove aveva avuto il piacere di provare le specialità di alcoliche di queste terre, sentiva appunto l’esigenza di cambiare, di provare gusti e sensazioni nuove, differenti da tutto ciò che aveva provato e conosciuto fino ad allora. La richiesta che Negroni fece al barista, era dettata dalla voglia di rendere più incisivo il grado alcolico del tradizionale americano che spesso consumava, da qui la scelta del cambio seltz – gin, con la quale venne a crearsi un’alchimia che cambiava tutto, diventava qualcosa di nuovo più deciso e forte, il Negroni era nato!

    Ricordiamo gli elementi che compongono il cocktail

    Il Negroni si compone di tre soli elementi alcolici, che vediamo qui sotto:Gin

    Campari

    Vermut rosso

    Il Gin, Campari e Vermut rosso in parti uguali, 3 cl per comporre un Negroni, le dosi uguali per non far torto a nessuno dei tre, quindi se vogliamo un cocktail “democratico” ed equilibrato, così come lo volle il conte e come viene ancora oggi servito. Anche la preparazione rispecchia la semplicità con la quale è stato ideato; uno dei pochi cocktail che si prepara direttamente nel bicchiere, mettere del ghiaccio in un tumbler basso per raffreddarlo, poi si scola il tutto e s’inizia a versare i tre ingredienti per poi mescolarli. Si completa il tutto con una bella fetta di arancia, ed essendo un drink dal tono amaro, si può consumare anche come tonico contro la calura estiva allungandolo con della soda, ovviamente non è più il classico Negroni ma funge perfettamente come buon refrigeratore contro il caldo. Piccola nota, evitare il ghiaccio triturato poiché sciogliendosi più velocemente rischia di annacquare troppo il drink della versione classica, che invece deve mantenere il suo sapore intenso.

    Qualche curiosità sparsa sul Negroni, anche sbagliato

    È vero che quando una cosa è ben fatta e piace può non solo avere delle imitazioni, ma produrre delle infinite variabili, una di queste è nota come il “Negroni sbagliato”. In quel di Milano il barman Mirko Stocchetto, fece l’errore di sbagliare bottiglia, invece del gin versò il brut, e così nacque una versione del tutto nuova da un errore fatto in buona fede, qualcosa che neppure il suo inconsapevole inventore poteva immaginare. Nacque così il Negroni Sbagliato, il quale fece subito breccia prima con i milanesi e poi nel resto d’Italia e nel mondo, questo per dire che le cose spesso vanno in un verso inaspettato creando piacevoli novità, di fatto oggi è il secondo Negroni più famoso al mondo.

    Resistente nel tempo, il Negroni è passato indenne alla guerra e oggi è più che mai apprezzato nelle più svariate e variopinte versioni, tutte comunque sempre riconducibili all’originale inventata dal conte. Una delle versioni più recenti è stata quella inventata dal barman dell’Hotel Excelsior durante il Giubileo, in onore di un cardinale ospite creò il Negroni del Cardinale, una variante che sostituisce il Martini rosso con il dry, ovviamente fu apprezzato e rimase come variante al classico cocktail. Oltre la versione sbagliata dunque, se ne contano molte altre, tuttavia nessuna si discosta dall’idea iniziale del conte Negroni, che, di fatto, è impossibile da sostituire completamente negli elementi, a patto di cambiare completamente tipologia di cocktail. Secondo alcune statistiche, il Negroni è comunemente bevuto da personalità dello spettacolo in occasioni mondane, infatti, è uno dei cocktail che più spesso è presente in party e cerimonie di alto livello, a dimostrazione che si tratta di un drink la cui eleganza è ancora oggi ben apprezzata nei più diversi ambienti e ceti sociali, tuttavia anche i comuni mortali possono gustare il Negroni, infatti, la sua popolarità non è mai venuta meno a ogni cambio generazionale!

    ECCO PERCHE’ DIVENTA UN FILM….

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Da New York a Londra impazza la moda del mocktail: ma cos’è?

    In gergo cinematografico il mockumentary è un genere di finzione che ricalca stile e linguaggio del documentario. La parola è la crasi di due termini:I MOCKTAIL SONO MISCELAZIONI ORIGINALI E PRIVE DI ALCOL FRUTTO DELL’ESTRO E DELLA CREATIVITÀ DEL BARTENDER documentary si fonde con mock, ovvero finto e, se usato come verbo, significa prendersi gioco o fare il verso. Lo stesso meccanismo è applicato per la parola mocktail che sta a indicare reinterpretazioni di cocktail classici o miscelazioni originali ma rigorosamente prive di alcol. In ambito alimentare, come è noto, l’attenzione nei confronti di gusti, scelte o esigenze diverse è crescente. È altresì vero che negli ultimi anni, uno dei maggiori trend è stato sicuramente la ri-scoperta della mixology di qualità: drink sempre più equilibrati, pensati da bartender estrosi, che utilizzano succhi, tinture e bitter fatti in casa con distillati di pregio. L’unione di queste due tendenze ha portato all’ampliamento dell’offerta di alternative analcoliche. Finalmente anche gli astemi e coloro che, anche momentaneamente, vogliano o debbano evitare l’alcol, possono bere qualcosa di interessante e testare la bravura di un barman. Non si tratta solo di riproporre cocktail privati della componente alcolica ma di ricorrere alla creatività, per cercare la combinazione giusta di ingredienti naturali, al fine di superare perfino il ricorso a bevande gassate, sciroppi ricchi di zuccheri o succhi di frutta

    mocktail

    Insomma sono finiti i tempi dello Shriley Temple, del San Francisco o del Virgin Colada, i mocktail attuali non si accontentano di limitare i danni ma puntano ad essere addirittura salutari, con le varianti detox, energizzanti o dimagranti. La frutta resta certamente protagonista assoluta: agrumi, ananas ma anche mirtilli e melograno, da aggiungere magari a carote, sedano, menta, cetrioli, basilico, semi di chia e mandorle; jolly immancabili sono la curcuma e lo zenzero, le cui proprietà sembrano infinite. Grande popolarità anche per l’acqua di cocco ed il tè verde che spesso rappresentano la base della miscelazione.

    zenzero

    Al di là dell’aspetto prettamente salutista, interessante è il punto di vista di chi si trova a fare i conti quando entra in gioco l’abbinamento con il cibo. Si parte inevitabilmente con un vuoto da colmare in termini di acidità, pienezza del corpo e sensazione di calore, soprattutto quando si tratta di tenere testa alla complessità di alcune ricette. E allora le strade sono due: trovare soluzioni con determinati ingredienti capaci di fornire un profilo aromatico e sensazioni boccali tali da sopperire all’assenza di alcol (alghe, peperoncino, erbe aromatiche) oppure ricreare le sensazioni organolettiche di cocktail tradizionali o addirittura di grandi vini, in una bevanda analcolica. Emblematico è il caso del menu Temperance Pairing Program dell’Atera di Manhattan, casa dello chef danese Ronny Emborg. Qui si cerca di unire la tradizione scandinava dell’abbinamento con i succhi – Rene Redzepi docet – all’arte della mixology americana, arrivando a proporre cose come il Nogroni, mocktail che appunto simula il più noto Negroni.

    bartender

    Questa tendenza ha sicuramente il merito di stimolare gli addetti al settore, obbligati, come durante il proibizionismo, a riscoprire certi ingredienti o per lo meno a rivalutarne l’utilizzo. L’effetto domino partito dai banconi dei cocktail bar ha coinvolto inevitabilmente anche le cucine di importanti ristoranti e non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Australia e Gran Bretagna.LA MODA DEL MOCKTAIL STA PRENDENDO PIEDE ANCHE IN ITALIA Per capire lo stato delle cose in Italia è utile volgere lo sguardo all’esperienza della Settimana della Sicurezza Stradale del maggio 2015, targata Michelin. Ai 39 chef italiani con due o tre stelle, fu chiesto di approntare un menu dedicato al tema e, ovviamente, la questione della riduzione dell’alcol era assolutamente centrale. L’unico a proporre quello che potremmo definire un mocktail fu Moreno Cedroni con una bevanda energetica a base di lime e zenzero. A Davide Scabin va invece il merito di aver pensato a un intero percorso di abbinamento, con succhi e nettari naturali. Tutti gli altri si sono praticamente limitati a raccomandare di bere con moderazione. Il mercato risponde con entusiamo a questo nuovo trend e, a parte le pubbliche esternazioni di Gualtiero Marchesi, il quale afferma di non toccare alcol da circa 20 anni, anche in privato qualche grande chef ha ammesso di provare un certo piacere nel giocare con le bevande analcoliche. C’è da aspettarsi un’inversione di tendenza?

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    La storia del cocktail Boulevardier

    Na na na na naaaa La Vie en Rose… Be io decisamente non so il testo e non la so cantare, però il cocktail di cui ti sto per raccontare la storia mi fa tornare nella Belle Epoque in Francia, su un bel viale alberato accompagnato dalla canzone di Édith Piaf  “La Vie en Rose”.



    Forse hai già capito di che drink sto parlando e spero di immergerti nell’atmosfera assieme a me…

    Il cocktail francese si chiama “Boulevardiero” , ed è un classico che risale agli anni 20’ a base di Bourbon, Campari e Vermouth rosso.

    Mi sento ispirata a parlare di un cocktail così lontano e così ricco di storia, ho voglia di ballare sulle meravigliose e dolci note della poetessa e cantante Édith Piaf, di cui voglio riportarti un piccolo passo del famoso brano:


    Quand il me prend dans ses bras        

    Il me parle tout bas,

    Je vois la vie en rose.

    Il me dit des mots d’amour,

    Des mots de tous les jours,

    Et ca me fait quelque chose.     

    Quando mi prende fra le braccia

    Mi parla sottovoce

    Per me la vita è tutta rosa

    Mi dice parole d’amore

    Parole di tutti i giorni

    E questo mi fa effetto



    Il Boulevardier è dolce, elegante, aggraziato, che ti scalda, come questa musica… Non trovi sia perfetto? 

    Il Boulevardier è un cocktail nato in Francia nel 1794 da un’idea che si attribuisce a Dominic Venegas. Tuttavia la creazione vera e propria del drink è per merito dello scrittore americano Erskine Gwynne, fondatore della rivista parigina chiamata appunto Boulevardier (esistente dal 1927 al 1932).

    Successivamente il grande barman Harry McElhone nel 1927, unì per la prima volta come sperimento il bourbon whiskey con il Bitter Campari, trovando un equilibrio perfetto che rese questo cocktail intramontabile.



    Il nome del cocktail è semplice da ricordare e suona in maniera armoniosa quando lo si pronuncia, il titolo Boulevardier proviene da “boulevard” che significa strada in francese. Questo termine fu coniato durante la Belle Epoque per definire una persona di strada, un passante.

    La ricetta? Da costruire in parti uguali con i seguenti ingredienti: 



    Si dice sia il cugino del Negroni, per la sostituzione del gin con il bourbon, mantenendo infatti anche le stesse proporzioni nelle dosi usate.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    LA STORIA DEL COCKTAIL “Negroni”

    Pre dinner d’eccellenza, after dinner all’occorrenza, fedele compagno in ogni stato d’umore, dal colore rosso rubino così intrigante, e poi l’intenso profumo di spezie amare e dolci, erbe officinali, bacche di ginepro, agrumi e vaniglia. Un cocktail secco e corposo, amaro nella coda. Nobile, come colui che lo ha creato: è il Negroni.

    Un alone di leggende, tanti dati precisi: l’origine del Negroni è piuttosto particolareggiata. Non solo si sa la città – una Firenze vitale ed europea, vivacizzata dal movimento futurista – ma anche il bar dove, per la prima volta, bitter, gin e vermouth si sono sposati in comunione di beni (e parti uguali).
    Più che un bar, un negozio d’antan, un po’ drogheria, un po’ profumeria, rivendita di generi vari: il Casoni, poi divenuto Caffè Giacosa, situato a cavallo tra via de’ Tornabuoni e via della Spada.

    In questo ritrovo di Firenze, in un giorno incerto compreso tra la fine del 1917 e il 1920, probabilmente sul far della sera, nasce il Negroni. A inventarlo, non un barman, ma Camillo Negroni, nobile elegante avventuriero. Con l’aiuto di Fosco Scarselli, giovane barista: due persone di diversa età e differente estrazione sociale, accomunate da un passato avventuroso.

    Fosco Scarselli, leva 1898, giovanissimo, è già passato dal fronte della prima guerra mondiale, toccato dalla prigionia, prima di approdare come barman, nel 1917, alle dipendenze di Gaetano Casoni.
    Il conte Camillo Negroni, orfano di padre a 10 anni, istruito alla vita militare, a 19 anni, s’imbarca per l’America, dove per due lustri fa il cowboy, conducendo le mandrie dalle squadrate praterie del Wyoming ai mercati canadesi. Col gruzzolo raggranellato, si trasferisce a New York. È il 1898, in piena golden age of cocktails: qui apre una scuola di scherma, si diverte col poker e le scommesse, trova moglie, prima di tornare a Firenze, nel 1912.

    La storia dice che il Negroni sia figlio diretto dell’Americano, il cocktail che incontra vermouth e Bitter Campari. E che il conte, che sapeva bere e reggeva bene l’alcol, un giorno abbia chiesto di fortificare il drink aggiungendo la potenza del gin. “In realtà l’Americano non era tanto un cocktail, ma un modo di servire il vermouth, all’americana, appunto – spiega Luca Picchi, occhi limpidi, portamento da nobiluomo, uno che ha passato la vita sulle tracce del conte (scrivendoci due libri) e che di Negroni ne ha miscelati parecchi –. Ovvero, mescolandolo con bitter, arzente, o altro spirito. Il Conte in America aveva già visto miscelare bitter e distillati: non gli sarà stato difficile guidare Scarselli nella creazione dell’Americano alla moda del Negroni”.

    Ecco così il Negroni: probabilmente servito all’inizio con una spruzzata di seltz (che finiva per abitudine il servizio del vermouth), caratterizzato da una fetta di arancia, al posto dell’allora usuale limone, per renderlo riconoscibile fin dalla vista.

    Dalle mie ricerche – continua Picchi – posso affermare che i primi Negroni si preparavano col Campari, bitter molto diffuso già allora a Firenze e presente in una grossa fetta del territorio nazionale. Sul vermouth utilizzato abbiamo meno certezze, anche se ho ritrovato una bolla di accompagnamento che attesta che la Martini & Rossi serviva il Casoni, in una data vicinissima alla nascita del Negroni. Mentre il Gin più diffuso in Italia era il Gordon’s”. Saranno stati questi i tre ingredienti del primo Negroni? Può darsi. “Ma difficilmente è nato con le attuali proporzioni. Credo che principalmente fosse un vermouth rafforzato con gin e colorato con bitter. Ma il Conte Negroni era uno che amava bere forte, all’americana, e si sarà sistemato il colpo in breve tempo così come oggi è conosciuto”.

    Il Negroni non fatica a diventare celebre. In una lettera datata 12 ottobre 1920 Francis Harper, un antiquario londinese amico del conte, scrive una frase divenuta celebre: “you must not take more than 20 Negronis in one day”. Il Negroni è già codificato. “Non tragga in confusione il numero: i 20 Negroni citati non si riferiscono certo alle dosi attuali (circa 12 cl, ossia 4 oz circa), ma erano serviti in piccoli calici da cordiale, da un’oncia”.

    Sono poi nate, come per ogni cocktail veramente famoso, diverse varianti: dal Cardinale, creato nel 1950 all’hotel Excelsior di Roma in onore di un cardinale di origini tedesche (il vermouth dry sostituisce il rosso, e fa capolino la scorzetta di limone); al Negroni Sbagliato, inventato per caso nel 1972 da Mirko Stocchetto, titolare del Bar Basso di Milano, scambiando per sbaglio una bottiglia di spumante con quella del gin. E pure James Bond lo beve: nel racconto Risiko (1960), Ian Fleming fa ordinare all’agente segreto un Negroni con il Gordon’s.

    Negroni

    3 cl Gin
    3 cl Bitter Campari
    3 cl Vermouth Rosso
    splash di soda (opzionale)

    Si prepara direttamente nel bicchiere old fashioned, riempito con cubetti di ghiaccio, guarnendolo con mezza fetta d’arancia.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    ….dalla «Tafia», bevanda dei Pirati, al Rhum

    Il rum è la bevanda legata alla conquista del Nuovo Mondo, e questo liquore sarà sempre identificato con la zona Caraibica. L’associazione tra questa bevanda e la pirateria, risiede principalmente nel fatto che il rum era il liquore localmente disponibile negli anni d’oro della pirateria nei Caraibi, ma soprattutto dall’enfasi che a tale connubio venne data in alcuni lavori letterari. L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson fu sicuramente uno dei più celebri romanzi per ragazzi di tutti i tempi. Racconta una storia di pirati e tesori che ha certamente contribuito in modo significativo all’immaginario popolare su di loro.


    Il rum è la bevanda legata alla conquista del Nuovo Mondo, si ottiene dalla distillazione di vari elementi della canna da zucchero ma il suo percorso fu a ritroso: la canna da zucchero è infatti originaria di Papua Nuova Guinea ed esportata e coltivata in Africa, India e infine in Spagna. Colombo portò le piante nella sua seconda spedizione del 1493 e da quel momento la canna da zucchero, divenne la coltivazione regina del Nuovo Mondo. Questo liquore sarà sempre identificato con la zona Caraibica. Già nel XVIII secolo più di 40 colonie producevano canna e rum. Il suo antenato era la «Tafia», che gli schiavi spremevano dal «guarapo», cioè il succo colato caldo della canna da zucchero, era aspra e forte ma alleviava le fatiche del lavoro. Piacque molto ai pirati che trasportavano sulle loro navi barili di «Draque», che non era altro che il trisavolo del moderno «Mojito», rum grezzo con foglie di menta, che evoca nella nostra immaginazione locali fumosi, taverne malfamate, ritrovi di pirati e fortissime emozioni. La prima distillazione di rum avvenne a Londra con le canne da zucchero indiane intorno al XV secolo, successivamente venne prodotto nella stessa città, con le canne da zucchero provenienti dalle Americhe. Mentre la prima distillazione di rum nelle Americhe ebbe luogo nelle piantagioni di canna da zucchero dei Caraibi nel XVII secolo. I primi rum caraibici non erano di grande qualità, tanto che un documento dalle Barbados del 1651, affermava che il maggiore intossicante prodotto sull’isola è il «Rumbullion», ottenuto da canne da zucchero distillate, un bollente, infernale, e terribile liquore. Si narra che i pirati trasportassero con sè barili di questo distillato, che rendeva l’equipaggio, poco prima di un assalto, euforico e incosciente. L’associazione tra questa bevanda e la pirateria, risiede principalmente nel fatto che il rum era il liquore localmente disponibile negli anni d’oro della pirateria nei Caraibi, ma soprattutto dall’enfasi che a tale connubio venne data in alcuni lavori letterari tra cui citiamo: «Bucaniers of America» (Bucanieri d’America) di John Esquemeling scritto nel 1684. Anche il poeta inglese George Byron (1788-1824) contribuì notevolmente a creare il mito del pirata romantico, con il suo famoso poema «Il Corsaro» scritto nel 1814. «L’isola del tesoro», di Robert Louis Stevenson (1850-1894), che uscì in forma di libro nel 1883, fu sicuramente uno dei più celebri romanzi per ragazzi di tutti i tempi. Racconta una storia di pirati e tesori che ha certamente contribuito in modo significativo all’immaginario popolare su di loro. Tutti i pirati in fondo, devono qualcosa a Stevenson. La RAI nel 1959, ne fece uno sceneggiato televisivo di successo; e tutti noi con i capelli bianchi ci ricordiamo della famose canzone: «Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum! Il vino e il diavolo hanno fatto il resto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum!». Ma che ci facevano «quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum?». Milioni di lettori si sono posti la domanda sul significato di quella canzone dei pirati, capeggiati dal cuoco dalla gamba di legno con il pappagallo sulla spalla: Long John Silver. La Royal Geographical Society di Londra pubblicò sul suo periodico «Geographical» una spiegazione del significato della canzone. Stevenson riprodusse fedelmente le parole di una canzone originale, realmente cantata tra i pirati nel 1700, nella quale si fa riferimento a una vicenda accaduta a «Cassa di uomo morto» che non è altro che un pezzetto di terra minuscolo e disabitato tra le Isole Vergini (Caraibi). Secondo una leggenda Edward Teach (1679-1718) meglio noto come «Barbanera», un pirata da manuale, con lo sguardo pazzo e inquisitore, teneva delle micce accese tra i capelli, beveva rum mescolato con polvere da sparo e arrotolava la sua barba nera intorno alle orecchie per rendere il suo aspetto ancora più minaccioso. Il suo regno di terrore durò solo due anni, la Marina inglese riuscì a catturarlo nell’insenatura d’Ocracoke nel 1718. Barbanera punì una parte del suo equipaggio che si era ammutinato, abbandonandolo per quattro settimane sull’impervia isola. A ognuno dei 30 uomini diede un coltello, una bottiglia di rum e niente cibo, sperando così che morissero di fame, o si uccidessero a vicenda. Invece quando tornò dopo un mese trovò che alcuni di essi erano sopravvissuti. Così nacque la canzone. Mentre l’associazione tra il rum e la Marina reale britannica iniziò nel 1655, quando la sua flotta invase l’isola di Giamaica. Con la disponibilità di rum prodotto internamente, gli Inglesi cambiarono la razione quotidiana di liquore destinata ai marinai, e dal brandy francese passarono al rum. Mentre la razione era originariamente pura, o mescolata con succo di limone verso il 1740, con l’intento di ridurre gli effetti dell’alcol sui suoi marinai, l’ammiraglio Edward Vernon (1684-1757) ordinò che la razione di rum venisse annacquata prima di essere distribuita.

    Una mezza pinta di rum mischiata con un quarto di acqua e servita in due parti, prima di mezzogiorno e dopo la fine della giornata lavorativa, divenne parte del regolamento ufficiale della Royal Navy. A Vernon era stato affibbiato il nomignolo di: «Old Grog», poiché era suo uso indossare un mantello di «Grogram», una ruvida stoffa a base mista di lana e seta. Questo nomignolo fu presto dato anche alla bevanda, che da allora divenne nota come «Grog». Col tempo la distribuzione della razione di rum si arricchì di un rituale elaborato. I sottufficiali venivano serviti per primi e avevano diritto a una razione di rum non diluita. La truppa beveva il suo «Grog» in un unico sorso, quando aveva finito il proprio lavoro attorno a mezzogiorno. Nella Marina inglese il «Grog» rimase parte della razione giornaliera dei marinai fino al 1970. Con questo liquore venne conservato il cadavere dell’ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805), deceduto nella battaglia di Capo Trafalgar (21 ottobre 1805), come confermano i documenti degli archivi britannici. Il suo corpo venne conservato in una botte di rum fino al rientro in Inghilterra, dove ricevette i funerali di Stato. Il suo corpo venne solennemente tumulato a Londra nella Cattedrale di San Paolo, all’interno di una bara ricavata da un pezzo di legno, ripescato in mare appartenente all’albero maestro dell’Orient, ammiraglia francese nella battaglia del Nilo o della Baia d’Abukir, che si svolse tra la sera del primo e la mattina del 2 agosto 1798.

    La battaglia segnò il trionfo della Marina britannica, nonché l’inizio della leggenda di Nelson. All’arrivo in madre patria, si scoprì che nella botte non vi era più traccia d’alcol. I marinai avevano praticato un foro sul fondo e bevuto tutto il rum, ignari o incuranti del fatto che all’interno giaceva il corpo dell’ammiraglio. Ancora oggi, memori di questo episodio, viene prodotto il «Nelson’s Blood», rum dall’inconfondibile colore rosso. Dunque un liquore che si produce con la distillazione della canna da zucchero, canna che si coltivava intensamente in quelle isole. Ma qui viene il bello! Il miglior rum proveniva e proviene tutt’ora da una città tedesca. Per molti secoli uno dei centri del Granducato di Schleswig, fino al 1864 sotto il dominio della Danimarca. Passato alla Prussia di Bismark, e in seguito alla Germania, il suo nome: Flensburg, in italiano Friburgo. La città trovandosi sul Mar Baltico, aveva tutte le carte in regola per diventare una città commerciale e soprattutto il declino della Lega Anseatica nel XVI secolo, permise ai suoi commercianti di entrare nei grandi affari internazionali. L’olio di balena, le aringhe sotto sale e lo zucchero erano le merci che resero la città ricca. Nel XVII secolo Flensburg era ancora danese, e la flotta delle Indie Occidentali del regno permise un fiorente commercio con le isole dei Caraibi, merci colonili soprattutto zucchero greggio di canna e cannella. Navi mercantili salpavano da Flensburg per far rotta sulle isole nei Caraibi, ritornando nella città del nord, riportando quella materia prima per la produzione di un ottimo rum, che divenne famoso in tutto il mondo, tanto che la stessa città divenne la capitale del rum in Europa. Oggi in ricordo di quel periodo mercantile si svolge a Flensburg una regata annuale denominata «Rumstadt», in omaggio al rum a cui partecipano un centinaio di barche a vela. Il primo premio è un simbolo per lo più inutile, quindi assistiamo a un paradosso, che molti skipper tentano di arrivare secondi, infatti il premio per il secondo arrivato è una bottiglia di rum di tre litri, della ditta Johannsen Rum, uno degli ultimi due «Rumhäuser» della città. Direttamente nel vecchio porto sorge il museo della marina «Schiffahrtsmuseum». Nel suo piano interrato si trova il «Museo Rum» che ospita vaste esposizioni sulla storia della «Rumimports», il commercio del rum a Flensburg. L’appassionante museo marittimo racconta la storia del rum e dei marinai che lo trasportavano e lo bevevano. Oggi il rum più costoso al mondo, risulta il «Legacy by Angostura». Nel dicembre 2012, in occasione del 50esimo anniversario dell’indipendenza di Trinidad & Tobago, la casa produttrice di rum Angostura lancia una limitata ed esclusiva produzione denominata «Legacy by Angostura», il rum più costoso al mondo che racchiude in se tutta l’esperienza di Angostura che vanta una storia di quasi 200 anni. Solo 20 bottiglie, da 500 ml, del valore stimato di 25.000 dollari. Il progetto è stato completato in sei anni di meticoloso lavoro, che ha dato vita a una miscela delle sette etichette di rum più rare e pregiate del marchio. Tutti i rum che compongono la ricetta hanno raggiunto la maturazione in botti di rovere americano da 200 litri, un tempo utilizzate per l’invecchiamento del bourbon, presso la distilleria Angostura di Trinidad; il più «giovane» di loro è invecchiato 17 anni.

X

    Chiama

    Please accept [renew_consent]%cookie_types[/renew_consent] cookies to watch this video.
    %d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: