• Curiosità dal Mondo del Bere

    La chinina: l’antidoto che arrivò dall’America

    Intorno al 1630 gli spagnoli scoprirono in Perù le proprietà della corteccia dell’albero di

    china per curare una malattia contagiosa che imperversava all’epoca: la malaria

    Nel corso della storia la malaria è stata una delle malattie più devastanti che il genere umano abbia dovuto affrontare. La patologia è causata da vari tipi di parassiti protozoi che si trasmettono all’uomo attraverso la puntura di zanzare anofele. Dato che le zanzare si riproducono in ambienti acquatici, i principali focolai della malattia si trovavano nei pressi delle paludi; infatti la malaria – cioè “cattiva aria” – è chiamata anche paludismo, dal latino palus, palude.

    Il morbo si manifesta spesso con febbre, brividi, dolori articolari e addominali,perdita dell’appetito e vomito. Nella fase acuta il malato sperimenta momenti di freddo improvviso seguiti da accessi di febbre (le cosiddette terzane, ogni 48 ore, o quartane, ogni 72).

    Flaconi di pillole di chinina risalenti alla metà del XIX secolo
    Foto: Bridgeman / Aci

    Attualmente si registrano circa 350 milioni di nuovi casi all’anno, e nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato la morte di più di 400mila persone, la maggior parte nell’Africa subsahariana. Ma nonostante queste sembrino cifre esorbitanti, in passato l’impatto della malaria fu decisamente peggiore, soprattutto perché per molto tempo non si trovava alcun rimedio minimamente efficace contro di essa. Rimedi come le purghe, i salassi e la somministrazione di diverse erbe, insieme al riposo, ai massaggi, all’idroterapia e al controllo della dieta, non apportavano quasi alcun beneficio. Infatti, le misure più efficaci erano le zanzariere, già menzionate da Erodoto a proposito dei pescatori del Nilo.

    Lo scenario mutò radicalmente a metà del XVII secolo, quando i medici europei scoprirono le proprietà curative della china, un albero tipico di alcune zone delle Ande, in Sud America, dalla Bolivia fino al nord della Colombia e al Venezuela. La sua corteccia contiene diversi alcaloidi naturali – tra cui la chinina, la chinidina, la cinconina e la cinconidina – che mitigano i sintomi della malaria ed eliminano i parassiti dal sangue, anche se dopo il trattamento il paziente non è immune da ricadute. La chinina fu la più importante tra le “nuove medicine” che gli spagnoli portarono in Europa dall’America nel corso del XVI e del XVII secolo. Ciononostante, se da un lato sappiamo dove e quando ebbe luogo la scoperta, dall’altro persistono ancora dei dubbi sulle circostanze che portarono a compiere questo gran passo in avanti nella storia della medicina.

    La contessa di Chinchón

    A quanto pare la scoperta avvenne grazie ai gesuiti che approdarono nella zona dell’attuale Ecuador agli inizi del XVII secolo. Si narra che a Loja, una città fondata nel 1548, un capo indiano fosse riuscito a curare le febbri terzane di un gesuita, fino a far scomparire la malattia. Nel 1630 questo gesuita avrebbe consigliato lo stesso rimedio al governatore di Loja, Juan López de Cañizares, che aveva contratto la malaria ed era guarito solo grazie alla corteccia della pianta di china.

    La Malaria, di Ernest Hébert, olio su tela che raffigura un gruppo di persone su una barca in una palude. 1850. Museo d’Orsay, Parigi
    Foto: Dea / Album

    Un anno più tardi avvenne l’episodio a cui si fa risalire la scoperta della china. Così come narrò pochi anni dopo il medico genovese Sebastiano Baldo, la sposa del viceré del Perù, il conte di Chinchón, si ammalò a Lima di febbre terzana, il sintomo inconfondibile della malaria, «che in quella zona non solo è frequente, bensì grave e carica di pericoli». La notizia della malattia della contessa di Chinchón si diffuse per il vicereame e arrivò fino a Loja, dove il governatore decise di scrivere immediatamente al viceré spiegandogli che «possedeva un rimedio segreto che raccomandava fortemente e che, se il Viceré lo desiderava, avrebbe guarito la sua sposa curandola da tutte le febbri». Senza perdere tempo, il viceré invitò il governatore a Lima e «una volta assunto il rimedio, come per miracolo, la sua consorte guarì tra lo stupore generale». Questa storia si diffuse rapidamente in tutta Europa, fino al punto che il naturalista svedese Carlo Linneo diede all’albero di china il nome tecnico di Cinchona officinalis (dimenticandosi di una “h” forse a causa della confusione tra l’ortografia castigliana e la latina).

    Indipendentemente dal fatto che la storia della contessa di Chinchón, in tutti i suoi particolari, sia autentica o meno, è innegabile che la conoscenza della china si fosse diffusa proprio in quegli anni a partire dal vicereame del Perù. Nel 1638 il monaco agostiniano Antonio de la Calancha scriveva: «Nella terra di Loja cresce una pianta che chiamano albero della febbre, la cui corteccia, del colore della cannella, quando viene ridotta in polvere e somministrata come una bevanda nella misura di due cucchiaini d’argento, cura le febbri e le terzane; a Lima ha prodotto risultati miracolosi».

    Imparare dall’osservazione

    Dal canto suo, il medico Gaspar Caldera de Heredia pubblicò nel 1663 un libro specificamente dedicato alla china in cui forniva dettagli relativi alla sua scoperta. Caldera affermava che i gesuiti delle missioni andine, stanziati nei pressi delle miniere, avevano notato che quando gli indiani tremavano, in seguito all’esposizione all’umidità e al freddo, erano soliti ridurre in polvere la corteccia della china e poi assumerla disciolta in acqua calda. Spesso sorseggiavano l’infuso proprio al momento di attraversare i fiumi per recarsi sui luoghi di lavoro, così da eliminare i fastidiosi tremori muscolari.

    Secondo la leggenda, per calmare la sete causata dalla febbre un nativo americano bevve acqua da un’oasi dove crescevano alberi di china. Visto che il rimedio funzionava, lo condivise con gli altri malati
    Foto: Mary Evans / Scala, Firenze

    I sacerdoti gesuiti ipotizzarono che quella corteccia si sarebbe potuta usare anche per curare gli stadi di freddo che precedevano le febbri e «ne somministrarono la polvere ad alcuni uomini affetti da quartane o terzane, riuscendo a guarirli». Di conseguenza, dopo aver constatato che le infusioni di china potevano eliminare i tremori, i missionari pensarono che avrebbero sortito lo stesso effetto anche sui brividi che anticipano le febbri paludose. Decisero dunque di provare, ottenendo un risultato almeno in apparenza simile.

    Questi esperimenti ebbero un esito inaspettato, poiché non solo eliminavano i brividi e i tremori muscolari dello stadio freddo nel paludismo, ma evitavano anche la comparsa dello stadio caldo della febbre intermittente. Dopo aver dato prova dei suoi benefici, la china cominciò a essere usata per prevenire gli stati febbrili e infine sistematicamente per il trattamento del paludismo. Nel 1641 approdò a Siviglia, in Spagna, un grande carico di china e la sostanza in pochi anni si diffuse per tutto il continente. La corteccia della china si vendeva in polvere – da lì il nome «polvere dei gesuiti», «polvere febbrifuga» o «polvere della contessa», in ricordo della moglie del vicerè – in ogni tipo di bottega; addirittura nel 1660 a Londra la vendeva un libraio.

    Il problema delle dosi

    I medici elaborarono diverse formule. Tra questi, lo spagnolo Leandro de Vega nel XVIII secolo prescriveva questo «febbrifugo generale» per curare le «febbri intermittenti»: «2 once di china di qualità sbriciolata; 2 libbre d’acqua comune. Fai bollire il tutto fino a ridurlo a una libbra e dopo colalo. Alla polvere restante aggiungi nuovamente dell’acqua comune, 2 libbre. Riducilo di nuovo fino a una libbra e dopo colalo. Mescola le due colature e conservale per l’uso. Somministrare dosi di 4 once ogni tre ore quando non si hanno i sintomi».

    Tuttavia, questi trattamenti non sempre erano efficaci. Oltre al fatto che alcuni commercianti vendevano miscele false, non si conosceva la dose esatta necessaria per la cura e, pertanto, le ricadute erano frequenti. Le cose cambiarono intorno al 1820, quando due chimici francesi, Pelletier e Caventou, isolarono un nuovo alcaloide della corteccia della china, che denominarono chinina. I preparati a base di piante medicinali – variabili, incerti e spesso manipolati – furono così sostituiti da farmaci facili da ingerire e provvisti di indicazioni di dosaggio esatte, poiché contenevano unicamente il principio attivo.

    In questo disegno di J. Bertuch del 1798 sono rappresentati l’albero e la corteccia della china
    Foto: Florilegius / Album

    CLASSIFICAZIONE

    Dominio: Eukaryota (Con cellule dotate di nucleo)
    Regno: Plantae
    Sottoregno: Tracheobionta (Piante vascolari)
    Superdivisione: Spermatophyta (Piante con semi)
    Divisione: Angiospermae o Magnoliophyta (Piante con fiori)
    Classe: Magnoliopsida (Dicotiledoni)
    Sottoclasse: Asteridae
    Ordine: Rubiales
    Famiglia: Rubiaceae
    NOMI POPOLARI E INTERNAZIONALI
    Corteccia Della Contessa O Dei Gesuiti, Rimedio Degli Inglesi, China Bark, Fever Tree, Jesuit´s Bark, Quinas; CHINA ROSSA: Red Cinchona, Red Peruvian Bark, Cascarilla, Chinarinde, Quinine Tree, Quinquina Rouge, C. Rubra, Chinarindenbaum, Fieberrinde; CHINA GIALLA: Yellow Cinchona, Calisaya Bark, Ledger Bark
    SINONIMI DEL NOME BOTANICO
    Cinchona succirubra Pav. et Klotsch (C.ROSSA), Cinchona calisaya Wedd. (C.GIALLA), Cinchona pubescens Vahl. (C.ROSSA), Cinchona ledgeriana Moens ex Trim. (C.GIALLA)
    HABITAT
    Originaria dell’America centro-meridionale (Perù e Bolivia), coltivata in India, Giava, Antille. Cresce bene con clima caldo-umido.
    DESCRIZIONE BOTANICA
    ARBUSTO O ALBERO SEMPREVERDE ALTO DA 6 A 30 M
    FIORITURA O ANTESI
    Agosto, Settembre, Ottobre, Estate, Autunno
    COLORI OSSERVATI NEL FIORE
    ________ BIANCO-VERDASTRO
    ________ ROSA
    ________ ROSSO-PORPORA
  • Curiosità dal Mondo del Bere

    La storia del Gin Tonic

    Il “G&T” (Gin Tonic) è uno dei cocktail più amati da giovani e meno giovani e nei suoi duecento anni di esistenza, non è mai passata di moda. A proposito del Gin Tonic Winston Churchill un giorno ha dichiarato: “La bevanda gin tonic ha salvato la vita e le menti di più inglesi di tutti i medici dell’Impero”.

    IL CHININO


    Tutto ebbe inizio in una terra esotica e lontana: l’india. Mentre la Gran Bretagna colonizzava questo vasto paese per tutto il XIX secolo, gran parte dei viaggiatori e dei coloni soffriva di malaria. La febbre ha devastato decine di europei, ma nel XVII secolo gli spagnoli scoprirono che le popolazioni indigene dell’attuale Perù usavano una corteccia per curare le febbri. Una corteccia di china rubata, ben presto è diventata un trattamento preferito per la malaria in Europa. Si scoprì presto che non solo curava la malaria, ma funzionava anche in modo preventivo.

    Il principio attivo all’interno della corteccia, il chinino, divenne un’arma potente per l’Impero Britannico, poiché consentiva ai suoi soldati di governare in terre lontane. Tuttavia, c’era un problema. La polvere di chinino era intensamente amara e difficile da ingoiare. Naturalmente, gli inglesi lo diluirono in acqua zuccherata e nacque “l’acqua tonica” nella sua prima forma.

    Non molto tempo dopo la diffusa popolarità del chinino, Schweppes introdusse nel 1870 il “tonico chinino indiano“, prendendo di mira la crescente popolazione di britannici all’estero che erano incoraggiati a prendere una dose giornaliera di chinino. Alla fine “il tonico” è tornato in patria come bevanda salutare.

    Anche il liquore al gin stava crescendo in popolarità nel 19° secolo. Era solo una questione di tempo e opportunità prima che un colono decidesse di prendere la sua acqua tonica al chinino indiano con un bicchiere di gin.

    D’altra parte, potrebbe esserci un posto migliore dei caldi tropici dell’India per godersi una fornitura fresca e rinfrescante come il gin tonic?


    La STORIA del Gin Tonic

    Il gin tonic è cresciuto in popolarità per il suo sapore delizioso e il suo scopo curativo, tanto che veniva spesso citato per le sue proprietà salvavita. Gin e Tonic sono anche semplici da preparare con solo due ingredienti e uno spicchio di lime o arancia per aumentarne la freschezza. L’importante è assicurarsi sempre di berne un bicchiere o anche due, d’altra parte la storia insegna che “questa è una bevanda che fa bene alla salute”.

    La storia del gin tonic è legata all’esercito della British East India Company in India, quando nel 1700, il medico scozzese George Cleghorn era il ragazzo che studiava il chinino, considerato un ottimo rimedio per la malaria. Allora la gente consumava il chinino insieme all’acqua, ma il sapore non era mai buono.

    Fu allora che gli ufficiali britannici in India, intorno all’inizio del XIX secolo, pensarono di mescolare acqua, zucchero, lime e gin al chinino, in modo che la bevanda diventasse più appetibile. Ai soldati in India veniva data una razione di gin in modo che il sapore dolce della bevanda fosse più gradito.



    Ben presto il Gin Tonic diventa una bevanda molto popolare, soprattutto in estate. Esistono anche prove scientifiche che nel 2004 uno studio ha scoperto che il consumo di 500-1.000 ml di acqua tonica funziona come terapeutico. Il Gin Tonic è oggi uno dei cocktail famoso in tutto il mondo, tanto che il 19 ottobre di ogni anno si celebra “la giornata del Gin Tonic”.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Cosa è il Navy Strength Gin e come nasce questa dicitura?


    La storia del Gin Navy Strength è solo un altro capitolo dell’affascinante e della storia spinosa del Gin stesso. Possiamo ringraziare la marina britannica, non solo per il Gin Navy strength, ma per il Gin come lo conosciamo oggi.

    Non c’è dubbio che la Royal British Navy abbia svolto un ruolo chiave sia nella produzione, nel consumo e nella prevalenza del Gin. L’uso di spezie esotiche nel Gin è stato reso possibile dalle importazioni dall’Africa e dall’Asia. La prevalenza di Gin in tutto il mondo è dovuta ai marinai che mettono piede in nuove città e in nuovi continenti.

    Abbiamo tutti sentito parlare delle razioni di rum nella marina. Sconosciuto a molte persone è il fatto che, mentre gli uomini arruolati sopravvivevano con il rum, gli ufficiali della Royal Navy bevevano Gin.

    La pratica di emettere razioni di alcol nella marina è iniziata nel 16 ° secolo. È iniziato con la birra, e talvolta con il vino e si è concluso con rum e Gin. La pratica di emettere razioni alcoliche fu abolita nella Royal Navy nel 1970. Tuttavia, la Royal New Zealand Navy ha abolito la pratica fino al 1990.

    Cos’è il Gin Navy Strength?

    Tecnicamente, tutto il Gin con più del 57,15% di alcol è un Gin Navy Strength. La ragione dell’alto contenuto alcolico risulta essere molto pratica.

    Sia il Gin che il rum erano conservati in botti di legno insieme alla polvere da sparo sottocoperta. Nel caso in cui i barili di Gin o rum iniziassero a fuoriuscire e immergersi nella polvere da sparo, il contenuto alcolico doveva essere almeno del 57,15%. Qualsiasi cosa al di sotto di questo e la polvere da sparo non brucerebbe.

    Alcol proof

    Il termine “proof” deriva dal test di “prova” della Royal Navy britannica. Ciò comportava versare lo spirito sulla polvere da sparo. Se la polvere bruciava dopo essere stata immersa, indicava che c’era un contenuto alcolico sufficiente – o che il Gin era “a prova di polvere da sparo” – e il gin era ammesso a bordo.

    Ciò significa che nel Regno Unito, uno spirito con il 57,15% è a prova di 100 gradi. Uno spirito con il 40% è a prova di 70 gradi.

    Per rendere le cose più complicate, la definizione americana di “prova” è molto diversa. La prova dell’alcol negli Stati Uniti è definita come il doppio della percentuale di alcol in volume. Di conseguenza, il gin a prova di 100 gradi contiene il 50% di alcol.

    Le caratteristiche di un Gin Navy Strength

    Tutti i Gin vengono diluiti con acqua per raggiungere il livello desiderato di ABV (Alcohol By Volume).

    Poiché il Gin è fatto aggiungendo ginepro, erbe, frutta e spezie allo spirito, ciò significa che il Gin Navy Strength non solo ha più alcol ma anche più del gusto originale.

    Tuttavia, a causa del modo in cui l’alcol influenza il gusto, non puoi presumere che un Gin Navy Strength sia solo un gin con più dello stesso gusto rispetto alla sua versione diluita, devi assaggiarlo per determinare se ti piace, proprio come qualsiasi altro Gin.

    Come usare un Gin Navy Strength

    La maggior parte dei Gin Navy Strength può essere utilizzata sia in un Gin & Tonic, sia in un Dry Martini.

    Il contenuto alcolico più elevato renderà più forte il Martini secco.

    In un Gin & Tonic, l’alcol è più mascherato, ma dovresti essere pronto a usare un po ‘più di tonica di quello che useresti con un Gin standard.

    Inizia usando la stessa quantità di tonica che faresti normalmente.

    Basandosi su questa storia, il termine “Navy Strength Gin” è nato negli anni ‘90 come strategia pubblicitaria per la vendita dei distillati ad alta gradazione. La possibilità di utilizzare questa dicitura sulle bottiglie di gin è stata poi regolamentata vietandone l’utilizzo sui gin al di sotto del 57,1% vol.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    CONOSCIAMO MEGLIO “IL GIN”

    1) L’ALCOOL NEUTRO

    La maggior parte dei gin è prodotta a partire da un alcool neutro di cereale o di melassa. Nel caso di un alcool di cereale, il mosto è spesso composto da una mescolanza di cereali: mais (75%), orzo (15%), e altri cereali (10%) tra cui la segale.

    2) MODI DI PRODUZIONE

    “Distilled gin”: questo metodo permette di produrre i gin migliori. La distillazione si effettua in batch all’interno di un alambicco tradizionale. Questo alambicco è scaldato a vapore al centro di una resistenza sistemata sul fondo della caldaia. La caldaia di questo alambicco (il pot) riceve l’alcool neutro, ridotto a circa 45° – 60°. Una volta portato ad ebollizione l’alcool, i vapori che si sviluppano si impregnano degli aromi delle bacche e delle erbe aromatiche. La testa e le code di distillazione, tossiche, sono riciclate, poi ridistillate mentre il cuore è condotto al centro di imbottigliamento, per la diluizione e l’imbottigliamento.

    Aromatizzazione per infusione: il principio consiste nel sospendere nell’alambicco, sopra all’alcool, una tasca di cotone contenente tutte le erbe aromatiche, bacche di ginepro e spezie, oppure nel posarli in una “camera perforata” istallata a livello del collo dell’alambicco. Al loro contatto i vapori dell’alcool si infondono, si impregnano delle essenze liberate dalle erbe aromatiche.

    Aromatizzazione per macerazione: il principio consiste nel far macerare le bacche di ginepro, le erbe aromatiche e le spezie direttamente in un alcool neutro a 45°, lasciandole inzuppare liberamente nell’alcool oppure disponendole per 24 – 48 ore in sacchetti di cotone. Alcune distillerie filtrano la miscela prima della distillazione, per separare gli aromatizzanti dall’alcool; altre distillano il tutto, producendo un alcool particolarmente carico di aromi.

    “Compound gin”: questa tecnica si basa sulla mescolanza di un alcool neutro (di melassa più frequentemente) con un concentrato di aromi di gin (cold compounding), oppure con essenze artificiali di bacche di ginepro, spezie ed erbe aromatiche (compound essence). Questo metodo non comporta alcuna ridistillazione ed è usato soprattutto nella preparazione di gin per il consumo di massa.

    3) DILUIZIONE E FRUIZIONE
    Una volta distillato, l’alcool è messo a riposare per qualche ora in cuve, poi la sua gradazione alcoolica è via via ridotta per diluizione fino alla gradazione desiderata. La filtrazione può essere effettuata a freddo: dopo averne abbassato la temperatura a -2°, l’alcool viene fatto passare attraverso un filtro di cellulosa, per eliminare tutte le particelle rimaste in sospensione. Si possono usare altre tecniche di filtrazione come quella del carbone attivo: l’alcool si cola allora attraverso uno strato di carbone.


    «Gli stili»

    Al di là della tecnica di aromatizzazione, per macerazione, distillazione oppure per mescolanza, il gin si trova sotto diverse categorie:

    LONDON GIN (London Dry Gin): questa categoria, denominata anche “English style”, simboleggia la quintessenza del gin. Il termine “London” non esprime un’origine, ma uno stile che può essere riprodotto in tutto il mondo. I “London Gin” o “London Dry Gin” sono dei “distilled gin” a cui non può essere aggiunto alcun elemento artificiale (aromi o coloranti) se non dello zucchero e nelle proporzioni ben definite (5 g/ettolitro a 100% alc/vol).

    PLYMOUTH GIN: a tutt’oggi è l’unica denominazione d’origine che esista per il gin Dominio riservato del sud dell’Inghilterra, questo gin è prodotto da una sola distilleria situata a Plymouth, Blackfriars Distillery (Coates &Co), che detiene l’unico diritto di uso della denominazione.

    OLD TOM GIN: antenato del London Dry Gin, questo gin era molto popolare nel XVIII secolo. Più dolce e leggermente zuccherato, era inoltre carico di aromi per mascherare una base alcoolica più dura e meno pura delle basi attuali. Uno stile in via di estinzione.

    «Altri stili»

    JENEVER: cugino primo del gin, il jenever è prodotto principalmente in Belgio, in Olanda e in Germania (Dornkaat). E’ elaborato a partire da un alcool risultante dalla distillazione di un mosto di cereali (mescolanza di segale, di grano, di mais e d’orzo),come possono esserlo alcuni whisky. Il Jenever è generalmente distillato in un alambicco pot- still o a ripasso e produce un alcool più robusto del gin. Esistono due tipi di jenever: “jonge” ( giovane) e “oude” ( invecchiato) messo in fusto di rovere da 1 a 3 anni.

    SLOE GIN: liquore elaborato a partire da gin infuso con prunelle. Alcune ricette implicano un periodo di invecchiamento in fusti di rovere.

    «La degustazione»

    L’introduzione del Bombay Sapphire nel 1988 ha permesso di evolvere al gusto odierno tutte le categorie di gin. Il ritorno in auge del gin permette anche di rivisitare tutta una serie di cocktails classici e di attirare una nuova generazione di consumatori. Questi gin dai nuovi sapori allargano un po’ di più la tavolozza aromatica disponibile, perché i mixologists possano esercitare i loro talenti e comporre nuovi cocktails. Alcune marche propongono anche delle versioni invecchiate in legno, allo scopo di fare del gin un prodotto da degustare in purezza.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    ECCO COME LA MODA DEL GIN HA QUASI DISTRUTTO LA LONDRA DEL XVIII SECOLO

    Londra, 1730: circa 7000 negozi di gin stavano trasformando i londinesi in alcolisti degenerati, i cui atti di violenza e devastazione sociale sono paragonabili a quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni ’80.

    La Londra a cavallo fra il 1700 e il 1800 è stata protagonista di una storia d’amore sconvolgente e devastante con il gin, conosciuto popolarmente come “la rovina della madre”. La situazione era talmente grave da poter tranquillamente affermare Londra stesse letteralmente affogando nel gin.

    Si calcola che circa 7000 negozi di gin (e probabilmente molti di più, se solo fossimo in grado di contare quelli illegali), appagassero il commercio di questa bevanda nel solo 1730. Parliamo di più di 37854117 litri di gin distillati ogni anno. Volendo fare un paragone, i resoconti sugli episodi di violenza, dipendenza diffusa e più in generale devastazione sociale possono ricordare quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni Ottanta.

    Per i londinesi appartenenti alla classe operaia, il gin era diventato ben più di una sola bevanda. Il gin placava gli spasmi della fame, offriva sollievo dal freddo perenne presente in città, ed era considerato una sorta di fuga dalla dura routine lavorativa nelle fabbriche e nei bassifondi. Si trattava di una “botta di vita” economica e facilmente reperibile a ogni angolo squallido della strada o fra gli antri di una qualsiasi cantina sordida della città. E così, nel giro di poco tempo, il gin ha portato scompiglio per tutto il centro di Londra.

    Thomas Fielding, uno studioso della storia sociale dell’epoca, così scrisse della situazione creatasi a Londra per colpa del gin nei confronti di quelle da lui definite come “persone inferiori”, in un pamphlet del 1751 dal titolo Indagine sulle cause dell’aumento dei rapinatori:

    “Un nuovo tipo di ebbrezza, sconosciuto ai nostri predecessori, si sta espandendo a macchia d’olio fra di noi e, qualora non riuscissimo a fermarlo, in procinto di distruggere buona fetta delle persone inferiori. Sto parlando dello stato di ubriachezza provocato da quel veleno chiamo Gin, altresì noto come la principale forma di sostentamento (se così si può dire), di più di centinaia di migliaia di persone abitanti in questa metropoli.”

    Ma perché il gin? Perché è stato proprio questo particolare alcolico e non, per esempio, il brandy e il whisky, a causare una simile devastazione?

    Quindi ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.

    Il brandy, che prima dei lunghi anni di conflitti fra la Francia e la Gran Bretagna riversava copioso nei calici della città, divenne con lo scoppiare della guerra improvvisamente fuori moda, se non addirittura considerato antipatriottico. Come se non bastasse, per rompere il monopolio francese sul mercato degli alcolici era intervenuto anche il Parlamento con una serie di atti legislativi volti a favorire la produzione di spiriti in casa.


    A favorire il clima di espansione degli alcolici ci pensò l’economia che, durante gli stessi anni, portò i prezzi del cibo ad abbassarsi notevolmente, permettendo quindi alla classe operaia di spendere le rimanenze degli stipendi proprio in alcol.

    Sebbene il gin sia ormai avvolto da un’aurea sofisticata e urbana durante tutto il Ventesimo secolo, riportando alla mente di molti le immagini nostalgiche di Humphrey Bogard in Casablanca, o anche di Ian Flaming appoggiato al bancone di qualche bar a sorseggiare martini, durante il Diciottesimo secolo la sua fama non avrebbe potuto essere più diversa.

    I racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca.

    Importato dall’Olanda negli ultimi anni del Diciassettesimo secolo, il jenever olandese era originariamente un tipo di spirito molto meno forte del gin che conosciamo (conteneva circa una percentuale alcolica del 30%). Il gin poi distillato a Londra era però diabolicamente più forte e, come se non bastasse, spesso adulterato con sostante pessime. Quindi, ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.

    La trementina e l’acido solforico erano sovente parte di questo brodo, così come nel moonshine americano e nel poteen irlandese, e i racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca. Una delle segnaletiche più note presenti sopra alle cantine in cui si serviva gin, avvertiva i consumatori che per un penny si sarebbero ubriacati mentre per due sarebbero diventati talmente ubriachi fradici da svenire su un letto di paglia (questo avrebbero però potuto farlo gratis).

    Ci fu però un tragico evento che, come spesso succede, catturò tutta l’opinione pubblica dell’epoca sollevando un grido di protesta talmente alto da dare il via alla fine della moda del gin. Nel 1734 una donna di nome Judith Dufour strangolò il figlio di soli due anni per poterne vedere i vestiti in cambio di un po’ di gin. La copertura mediatica dell’accaduto face in modo che il Parlamento (che dal commercio di gin intascava copiose tasse) agisse legislativamente. Nel giro di soli venti anni, il Parlamento inglese riuscì a far passare tutta una serie di emendamenti che rallentarono la sete (apparentemente inesauribile) di gin della città.

    Fra tutti, il Gin Act del 1751 si distinse per importanza. L’emendamento proibiva ai distillatori di vendere il gin a commercianti non autorizzati e, allo stesso tempo, aumentava le commissioni a quelli più piccoli. Tale decisione portò i piccoli negozianti a non riuscire più a vendere gin, e quelli più grandi a venire stretti da una morsa di continui controlli di qualità, che però garantivano una vendita d’eccellenza.

    Lo storico GM Trevelyan così descrisse l’emendamento del periodo nel terzo volume del suo Storia sociale illustrata:

    “Il Gin Act del 1751 non ha davvero diminuito il consumo eccessivo di alcol. Tuttavia, ha comunque marcato un punto di svolta importante nella storia sociale di Londra, i cui abitanti valutarono positivamente i suoi risvolti, persino dopo che alcuni dottori dell’epoca attribuirono comunque un ottavo delle morti totali di Londra proprio al consumo di gin. Il peggio era, infatti, passato, e ben presto arrivò comunque il tè a primeggiare sull’alcol.”

    una volta passato l’atto, la moda del gin fu immortalata per sempre nella famosa opera Gin Lane di Hogarth.

    L’artista si ritrovò a ritrarre una Londra dei bassifondi devastata dall’alcolismo. Gin Lane, in tutta la sua veridicità sconvolgente, mostrava un quadro generale di deprivazione. Raccontava di bambini intenti a camminare su di una ringhiera mentre le madri rimanevano sedute inibite dai fumi dell’alcol, di mendicanti impegnati a litigare con dei cani per dei pezzi di ossa, di risse scoppiate per la strada con tanto di corpi privi di vita derubati dei propri averi, di prestatori su pegno arricchiti a spese di chi, per un po’ di gin, era disposto a vendere i propri beni più cari.

    La stampa era accompagnata da questo verso di James Townley: “Gin, maledetto demonio, pieno di furia: rendi la razza umana una preda, assoggettandola a un richiamo mortale, privandola della sua vita.”

    Gin Lane era inoltre anche seguita da un’altra stampa sempre di Hogarth intitolata Street Beer, che esaltava invece le virtù spensierate fuoriuscite dalle botti schiumose di birra. Street Beer raffigurava il fulcro di un’industria focalizzata su “il bel prodotto della nostra isola… il cui succo aromatico viene da noi tracannato con gioia lasciando solo l’acqua ai francesi.”

    Tuttavia, sebbene il gin a buon mercato sia stato disprezzato per un po’ di tempo, negli ultimi anni il susseguirsi di alcune vicende ne ha mutato la percezione. Una piccola selezione di distillerie ha aperto le proprie attività a Londra, vincendo riconoscimenti vari per le proprie distillazioni botaniche. La Sipsmiths, per esempio, ha vinto premi per il suo London Dry Gin, mentre la East London Liquor Company delizia i suoi clienti con vecchi metodi di distillazione (tutti di qualità eccelsa), che includono gin messo in infusione con buccia di pompelmo, cardamomo, bacche e altre erbe botaniche.

    Ora è sicuramente tutto più rispettoso e sofisticato, ben lontano dai tempi in cui la gente di azzuffava fuori dai locali per una pinta di gin, però è comunque meglio non definirla “moda”.

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