Londra, 1730: circa 7000 negozi di gin stavano trasformando i londinesi in alcolisti degenerati, i cui atti di violenza e devastazione sociale sono paragonabili a quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni ’80.
La Londra a cavallo fra il 1700 e il 1800 è stata protagonista di una storia d’amore sconvolgente e devastante con il gin, conosciuto popolarmente come “la rovina della madre”. La situazione era talmente grave da poter tranquillamente affermare Londra stesse letteralmente affogando nel gin.
Si calcola che circa 7000 negozi di gin (e probabilmente molti di più, se solo fossimo in grado di contare quelli illegali), appagassero il commercio di questa bevanda nel solo 1730. Parliamo di più di 37854117 litri di gin distillati ogni anno. Volendo fare un paragone, i resoconti sugli episodi di violenza, dipendenza diffusa e più in generale devastazione sociale possono ricordare quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni Ottanta.
Per i londinesi appartenenti alla classe operaia, il gin era diventato ben più di una sola bevanda. Il gin placava gli spasmi della fame, offriva sollievo dal freddo perenne presente in città, ed era considerato una sorta di fuga dalla dura routine lavorativa nelle fabbriche e nei bassifondi. Si trattava di una “botta di vita” economica e facilmente reperibile a ogni angolo squallido della strada o fra gli antri di una qualsiasi cantina sordida della città. E così, nel giro di poco tempo, il gin ha portato scompiglio per tutto il centro di Londra.
Thomas Fielding, uno studioso della storia sociale dell’epoca, così scrisse della situazione creatasi a Londra per colpa del gin nei confronti di quelle da lui definite come “persone inferiori”, in un pamphlet del 1751 dal titolo Indagine sulle cause dell’aumento dei rapinatori:
“Un nuovo tipo di ebbrezza, sconosciuto ai nostri predecessori, si sta espandendo a macchia d’olio fra di noi e, qualora non riuscissimo a fermarlo, in procinto di distruggere buona fetta delle persone inferiori. Sto parlando dello stato di ubriachezza provocato da quel veleno chiamo Gin, altresì noto come la principale forma di sostentamento (se così si può dire), di più di centinaia di migliaia di persone abitanti in questa metropoli.”
Ma perché il gin? Perché è stato proprio questo particolare alcolico e non, per esempio, il brandy e il whisky, a causare una simile devastazione?
Quindi ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.
Il brandy, che prima dei lunghi anni di conflitti fra la Francia e la Gran Bretagna riversava copioso nei calici della città, divenne con lo scoppiare della guerra improvvisamente fuori moda, se non addirittura considerato antipatriottico. Come se non bastasse, per rompere il monopolio francese sul mercato degli alcolici era intervenuto anche il Parlamento con una serie di atti legislativi volti a favorire la produzione di spiriti in casa.
A favorire il clima di espansione degli alcolici ci pensò l’economia che, durante gli stessi anni, portò i prezzi del cibo ad abbassarsi notevolmente, permettendo quindi alla classe operaia di spendere le rimanenze degli stipendi proprio in alcol.
Sebbene il gin sia ormai avvolto da un’aurea sofisticata e urbana durante tutto il Ventesimo secolo, riportando alla mente di molti le immagini nostalgiche di Humphrey Bogard in Casablanca, o anche di Ian Flaming appoggiato al bancone di qualche bar a sorseggiare martini, durante il Diciottesimo secolo la sua fama non avrebbe potuto essere più diversa.
I racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca.
Importato dall’Olanda negli ultimi anni del Diciassettesimo secolo, il jenever olandese era originariamente un tipo di spirito molto meno forte del gin che conosciamo (conteneva circa una percentuale alcolica del 30%). Il gin poi distillato a Londra era però diabolicamente più forte e, come se non bastasse, spesso adulterato con sostante pessime. Quindi, ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.
La trementina e l’acido solforico erano sovente parte di questo brodo, così come nel moonshine americano e nel poteen irlandese, e i racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca. Una delle segnaletiche più note presenti sopra alle cantine in cui si serviva gin, avvertiva i consumatori che per un penny si sarebbero ubriacati mentre per due sarebbero diventati talmente ubriachi fradici da svenire su un letto di paglia (questo avrebbero però potuto farlo gratis).
Ci fu però un tragico evento che, come spesso succede, catturò tutta l’opinione pubblica dell’epoca sollevando un grido di protesta talmente alto da dare il via alla fine della moda del gin. Nel 1734 una donna di nome Judith Dufour strangolò il figlio di soli due anni per poterne vedere i vestiti in cambio di un po’ di gin. La copertura mediatica dell’accaduto face in modo che il Parlamento (che dal commercio di gin intascava copiose tasse) agisse legislativamente. Nel giro di soli venti anni, il Parlamento inglese riuscì a far passare tutta una serie di emendamenti che rallentarono la sete (apparentemente inesauribile) di gin della città.
Fra tutti, il Gin Act del 1751 si distinse per importanza. L’emendamento proibiva ai distillatori di vendere il gin a commercianti non autorizzati e, allo stesso tempo, aumentava le commissioni a quelli più piccoli. Tale decisione portò i piccoli negozianti a non riuscire più a vendere gin, e quelli più grandi a venire stretti da una morsa di continui controlli di qualità, che però garantivano una vendita d’eccellenza.
Lo storico GM Trevelyan così descrisse l’emendamento del periodo nel terzo volume del suo Storia sociale illustrata:
“Il Gin Act del 1751 non ha davvero diminuito il consumo eccessivo di alcol. Tuttavia, ha comunque marcato un punto di svolta importante nella storia sociale di Londra, i cui abitanti valutarono positivamente i suoi risvolti, persino dopo che alcuni dottori dell’epoca attribuirono comunque un ottavo delle morti totali di Londra proprio al consumo di gin. Il peggio era, infatti, passato, e ben presto arrivò comunque il tè a primeggiare sull’alcol.”
una volta passato l’atto, la moda del gin fu immortalata per sempre nella famosa opera Gin Lane di Hogarth.
L’artista si ritrovò a ritrarre una Londra dei bassifondi devastata dall’alcolismo. Gin Lane, in tutta la sua veridicità sconvolgente, mostrava un quadro generale di deprivazione. Raccontava di bambini intenti a camminare su di una ringhiera mentre le madri rimanevano sedute inibite dai fumi dell’alcol, di mendicanti impegnati a litigare con dei cani per dei pezzi di ossa, di risse scoppiate per la strada con tanto di corpi privi di vita derubati dei propri averi, di prestatori su pegno arricchiti a spese di chi, per un po’ di gin, era disposto a vendere i propri beni più cari.
La stampa era accompagnata da questo verso di James Townley: “Gin, maledetto demonio, pieno di furia: rendi la razza umana una preda, assoggettandola a un richiamo mortale, privandola della sua vita.”
Gin Lane era inoltre anche seguita da un’altra stampa sempre di Hogarth intitolata Street Beer, che esaltava invece le virtù spensierate fuoriuscite dalle botti schiumose di birra. Street Beer raffigurava il fulcro di un’industria focalizzata su “il bel prodotto della nostra isola… il cui succo aromatico viene da noi tracannato con gioia lasciando solo l’acqua ai francesi.”
Tuttavia, sebbene il gin a buon mercato sia stato disprezzato per un po’ di tempo, negli ultimi anni il susseguirsi di alcune vicende ne ha mutato la percezione. Una piccola selezione di distillerie ha aperto le proprie attività a Londra, vincendo riconoscimenti vari per le proprie distillazioni botaniche. La Sipsmiths, per esempio, ha vinto premi per il suo London Dry Gin, mentre la East London Liquor Company delizia i suoi clienti con vecchi metodi di distillazione (tutti di qualità eccelsa), che includono gin messo in infusione con buccia di pompelmo, cardamomo, bacche e altre erbe botaniche.
Ora è sicuramente tutto più rispettoso e sofisticato, ben lontano dai tempi in cui la gente di azzuffava fuori dai locali per una pinta di gin, però è comunque meglio non definirla “moda”.
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