Curiosità dal Mondo del Bere
Tutto ciò che c'è da sapere nel fantastico mondo del Bartender
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Twist On Classic Concept
Il Jerry Thomas Project Speakeasy, sin dall’apertura delle sue porte al pubblico, ha creato e sviluppato il proprio criterio per la creazione delle ricette originali.
Il sistema è basato su semplici (ma spesso complesse) varianti su ricette e tecniche classiche.
La meticolosità del nostro modus operandi segue la “regola tridimensionale”: Twist Orizzontale, Twist Verticale, Twist Diagonale.
Vediamola insieme:
Twist Orizzontale:
partendo da una struttura di ricetta classica, si sostituisce uno o più ingredienti con altri della stessa tipologia.
Es: distillato per distillato; dolcificante per dolcificante; acidificante per acidificante; allungante per allungante (acqua e affini…).
Es: Whiskey Sling (whiskey, acqua, zucchero).
Sostituendo Genever al Whiskey, miele allo zucchero, tè all’acqua, otterremo un drink completamente differente pur mantenendo inalterata la struttura degli ingredienti.
Twist Verticale:
consiste nell’aggiungere, ad una ricetta già stabilita, un ingrediente che non rientra in nessuna delle tipologie degli ingredienti contenuti.
Es.: Improved Whiskey Cocktail (whiskey, acqua, zucchero, Maraschino, Bitters).
Aggiungendo Vermouth (che, tecnicamente, esula da ogni tipologia di ingrediente della ricetta), otterremo un Manhattan classico.
Twist Diagonale:
si ha quando si sostituisce un ingrediente della ricetta base con un altro di tipologia differente, ma che persegue lo stesso scopo dell’ingrediente originale (dolcificante alcolico in luogo di dolcificante analcolico, soluzioni e preparazioni acide in luogo di succo di agrumi, ecc.).
Es.: quando in un whiskey sour sostituiamo lo sciroppo di zucchero con un liquore dolce (il liquore, seppur contenente zucchero, non rientra nella tipologia dello zucchero o dolcificanti semplici ma contribuisce in ogni caso a dolcificare, aggiungendo alcol e aromi).
Twist on Classic
Il concetto di Twist on Classic non può prescindere dall’importanza relativa ai drink classici: non solo Manhattan, Sour e Old Fashioned, ma tutta la pletora di drink realizzati nell’epoca pre-proibizionistica americana. È proprio a partire da questi drink che iniziarono a realizzarsi varianti più o meno famose che hanno caratterizzato la mixology ed i barman del XX e del XXI secolo.
Il primato dei drink miscelati spetta senza dubbio al Punch, quello nato per necessità e virtù dei marinai all’avanscoperta di nuovi e vecchi mondi.
Considerata oggi semplice ed immediata, la formula sour, sweet, strong e weak, rivela una complessità infinita se riproposta con la innumerevole possibilità di switch oggi possibile. All’epoca, la scelta degli ingredienti era piuttosto ristretta: lime o limoni, zucchero di palma o canna grezzi, Genever, Arrack o Rum, acqua o tè.
Per quanto concerne l’acidità, oggi è possibile rivolgersi ad innumerevoli varianti di agrumi comprese le varietà più dolci (magari utilizzando acidi puri come il citrico, il succinico, il malico o tartarico).
Dagli aceti, allora utilizzati in mancanza di agrumi, è possibile creare la propria madre, così come da qualsiasi genere di vino, birra e polpe di frutta contenenti zucchero (con la Kombucha giapponese si possono creare aceti da tè fino a centrifugati di ananas, mango ecc.).
Gli zuccheri e i dolcificanti disponibili sul mercato si sprecano: panela, piloncillo, muscovado e demerara, sono solo alcuni esempi dei prodotti di qualità ottenibili dalla canna da zucchero. Zucchero di palma tradizionale in panetti ottenuti dalla essiccazione del succo derivante dalla pianta in corrispondenza delle infiorescenze; zucchero di palma prodotto con le tecniche di saccarificazione utilizzate con canna e barbabietola; miele, melasse, sciroppi d’acero, di mais, d’orzo, di grano e altri cereali senza contare marmellate e chutneis. Molti altri dolcificanti, come lo sciroppo di agave o di stevia, possono essere utilizzati in miscelazione, oltre ad essere utili per applicazioni medico-salutari.
I distillati disponibili sul mercato permettono di realizzare ricette ancestrali utilizzando, ad esempio, l’ Arrack di Batavia prodotto in Indonesia, in Sri Lanka e a sud dell’India, oppure il vero Genever che i produttori belgi e olandesi hanno ricominciato a produrre sull’onda del rinascimento della mixology classica.
Allo stesso modo, i rum caraibici stanno tornando alle versioni più complesse e ricche del passato attraverso nuove generazioni di produttori ed imbottigliatori privati, sebbene a costi non sempre contenuti. Accanto a questi, le Cachaça brasiliane, le Aguardienti sudamericane e le interessanti versioni di Tequila e Mezcal più artigianali, sono un’ottima soluzione per nuove varianti. In America i produttori di spirits garantiscono oggi il ritorno di prodotti quali Applejack, Old Monongahela Rye ed American Genever, con il supporto di grandi distillerie e micro distillerie cittadine. Anche i super tradizionali Cognac oggi sono disponibili grazie alla sensibilità di alcuni produttori nei confronti della Nuova Golden Age of Cocktail. Tra questi spicca Alexandre Gabriel, della Cognac Ferrand, con il suo Ferrand 1840. Sebbene il London Dry Gin apparve dopo il declino (temporaneo) del punch, oggi è un ottimo ingrediente per punch più floreali, fruttati e speziati, soprattutto in relazione alla rinascita del gin che ha portato migliaia di nuove interpretazioni sul mercato. Anche la Vodka può essere un ottima base nei punch: questo distillato, piuttosto neutro in sapore e gusto, è un interessante catalizzatore per elementi aromatici, speziati e fruttati derivanti dalle altre componenti (frutta, spezie, infusi, decotti, zuccheri aromatizzati ecc.). È possibile creare punch anche da distillati inusuali ed estremamente complessi come il Baijiou cinese, anche se deve essere utilizzato come comprimario, poiché difficilmente è possibile miscelarlo da solo, vista l’estrema carica delle proprietà organolettiche. Infine, per la diluizione e la speziatura, oggi basta recarsi in erboristeria ed ottenere un’infinità varietà di erbe, spezie, fiori, radici e cortecce dalle quali ottenere infusi e decotti dalla buona complessità aromatica, rendendo protagonista un elemento che spesso era relegato unicamente alla riduzione della potenza alcolica del punch. Il tè, ad esempio, è parte integrante delle primissime ricette ( alcune risalgono al 1620) e oggi le botteghe specializzate nelle città italiane offrono selezioni di tè provenienti da zone di produzione storiche e nuove, con complessità variabili: dai più delicati bianchi cinesi fino ai super complessi e tannici Yunnan Imperial.
A partire dal 1800, il lento declino del punch fu segnato dall’individualismo e dalla velocizzazione della società americana (trasporti, comunicazione e business) per cui il gentleman non vedeva di buon occhio il dover bere la stessa bevanda degli altri commensali e il dover sedere per diverse ore intorno ad una tavola per espletare il rito della bevanda conviviale.
Questo determinò il passaggio del punch dalla bowl a contenitori più piccoli da servizio singolo, che permettessero di esaltare il crescente individualismo americano ed un consumo più rapido e consono ai nuovi ritmi della società urbanizzata. Oltre a Sour, Fix, Fizz, Daisy, Cobbler ecc., crebbero altre ricette individuali come Sling, Toddy, Julep o Eggnog e, naturalmente, il Cocktail.
Queste nuove tendenze trasformarono il ruolo del saloon-keeper, che pian piano assunse il nome di Mixologist. Gli standard delle ricette furono immortalati in vari libri tra cui spicca The Bon Vivant Companion or How to Mix Drinks, scritto da Jerry Thomas nel 1862. In questo periodo (1800-1919) si dispiegano tre epoche della mixology: Arcaica, Barocca e Classica, così denominate da David Wondrich nel suo Imbibe, del 2007. I nuovi bar si arricchirono di attrezzature più moderne: ghiaccio, sodati e prodotti importati dall’Europa, come Vermouth, amari, sciroppi e liquori proventienti da Italia, Francia, Spagna, Olanda, Germania soprattutto. Questo spinse i Mixologist ad adottare il sistema che oggi chiamiamo “Twist on Classic” al fine di creare nuovi drink basati sulla struttura degli standard stabiliti da Jerry Thomas e soci. In particolare si svilupparono due tipologie di twist: l’orizzontale ed il verticale, entrambi basati sull’evoluzione delle ricette standard.
Nel twist orizzontale il Mixologist prendeva una ricetta base e sostituiva uno degli elementi con un altro della stessa tipologia, lasciando gli altri invariati. Così da una ricetta come il Brandy Crusta, nacquero varianti con gin, bourbon, rum ecc. Zucchero, Curaçao, limone e angostura formavano il blocco, mentre il distillato subiva una sostituzione orizzontale.
Il twist verticale consiste invece nell’aggiunta di un elemento ad una ricetta già di per se “funzionante” ed in genere veniva utilizzato quando arrivava un prodotto non collocabile in nessuna categoria relativa agli elementi costitutivi della ricetta.
Un esempio perfetto risiede nel Manhattan. Intorno al 1870 si diffonde ampiamente il Vermouth in America (sebbene già noto qua e la sin dal 1838) ed inizia la sperimentazione da parte dei Bartender americani. Il Manhattan, indiscusso re dei cocktail a partire dal 1880 circa, nacque tra il 1848 ed il 1870, come spiega David Wondrich in molte pubblicazioni, probabilmente quale frutto delle sperimentazioni effettuate da (pochi) barman i cui bar (i più prestigiosi) avevano la novità in stock.
Il twist verticale fu effettuato, per esempio, sull’Improved Whiskey Cocktail, allora molto popolare. Il drink era composto da Bourbon o Rye, zucchero, acqua, maraschino e Bitters. A guardar bene la struttura della ricetta, volendo fare un twist orizzontale, e guardando alla composizione del Vermouth, questo non rientra tecnicamente in nessuna delle categoria dei prodotti utilizzati nella ricetta. In realtà la nascita del Manhattan sarebbe stata possibile anche sostituendo lo zucchero ed il maraschino (considerandoli nell’insieme come dolcificante aromatizzato) con il Vermouth (anche questo potrebbe essere considerato dolcificante aromatizzato). Il risultato sarebbe Bourbon/Rye, Vermouth, acqua e Bitters.
La teoria del twist orizzontale e verticale venne applicata anche oltre il pre-proibizionismo da parte dei Bartender americani a Cuba ed in Europa, che ebbero a disposizione una miriade di nuovi prodotti e che contribuirono alla nascita delle scuole di questi paesi. Harry Craddock, famoso per aver lavorato presso Hoffman House, Holland House, Waldorf Astoria e Knockerbocker Hotel a New York, scrisse nel 1930 The Savoy Cocktail Book. Il libro presenta circa 700 cocktail dei quali la maggior parte sono twist orizzontali e verticali di ricette classiche americane. Craddock contribuì inoltre alla fondazione della UKBG, l’associazione britannica dei bartender. Da Cuba, invece, Eddie Woelke tornò negli Stati Uniti, portando con se molti twist su ricette americane creati utilizzando il nuovissimo Cuban Light Rum; i drink sono immortalati sul suo libro The Barman Mentor, del 1939. Varianti più complesse si hanno in America a partire dal 1934, da parte di Donn Beach, creatore dello stile della mixology polinesiana, Donn basò i suoi twist (piuttosto verticali) su due ricette: Daiquiri e Planter’s Punch. Su tutti ebbero notevole spessore lo Zombie, il Cobra’s Fang e lo Shark’s Tooth.
Lo scopo principale di una variante sul classico è quello di migliorare la ricetta originale: laddove questo non possa accadere, è ovviamente preferibile la versione originale.
Nell’ottica di un moderno Twist on Classic, un’importanza particolare va individuata in un corretto programma di Homemade.
Per variare la ricetta di un Punch, sono un’ottima soluzione gli zuccheri semolati aromatizzati con spezie ed erbe essiccate, per realizzare un inusuale Oleo Saccharum. Infusi, decotti e sodati realizzati con tè, spezie, erbe aromatiche ed officinali, radici, rizomi e cortecce, possono rappresentare un valido mezzo per sostituire l’acqua di diluizione. Essi possono essere preparati in modo semplice ed apportano una notevole complessità al punch finale.
Le infusioni consistono nel lasciare erbe, fiori e spezie delicate a contatto con acqua calda (80 gradi circa), per un periodo variabile da due a dieci minuti.
I decotti, invece, prevedono di portare ad ebollizione acqua e solidi, in genere radici, cortecce e le spezie più dure, lasciando bollire il tutto per un periodo da tre a dieci minuti per poi lasciar raffreddare.
Sciroppi, Liquori, Bitters e gli stessi infusi o decotti, possono essere utilizzati con successo anche nelle preparazioni dei cocktail del periodo pre-proibizionistico americano, come Sling, Toddy, Julep, Sangaree. In questi drink, infatti, la struttura è formata essenzialmente da acqua, zucchero, e spirit, che li rende facilmente twistabili.
Per la preparazione degli sciroppi di fiori ed erbe delicate, è sufficiente mescolare gli infusi con zuccheri di varia natura (barbabietola, canna bianco, palma, demerara, muscovado, panela). Per ingredienti più “duri” si uniscono i decotti con lo zucchero. In entrambi i casi si lascia sciogliere lo zucchero aiutandosi con un pentolino.
In caso di frutta che necessiti di preservare l’acidità, come lamponi, passion fruit o ananas, è necessario procedere alla preparazione di uno sciroppo di zucchero da aggiungere alle polpe fresche ancora caldo ed effettuare un “flash cooling”, ovvero un raffreddamento veloce. Gli sciroppi a base d’infusi e decotti vanno lavorati con lo zucchero più adeguato ad una proporzione di due parti di zucchero ed una di infuso o decotto, in modo da raggiunge una densità di 66 gradi Brix (percentuale di zucchero nella composizione), ideale per evitare fermentazioni alcoliche e per una maggiore conservazione del prodotto. Gli sciroppi di frutta, per via della polpa e dei succhi presenti, avranno una minore presenza zuccherina (55 gradi Brix circa) e quindi una minore durata.
La produzione di Liquori e Bitters si effettua tramite macerazione dei solidi in alcol. In alcuni casi la gradazione dell’alcol da utilizzare può raggiungere i 60/70 gradi, soprattutto se si devono macerare spezie dure come radici e cortecce.
Via via che la struttura dei solidi diminuisce, anche la gradazione dell’alcol deve necessariamente essere minore, al fine di evitare spiacevoli sovraestrazioni tanniche o erbacee. Esistono comunque delle formule che permettono di calcolare esattamente la quantità di acqua da aggiungere all’alcol per ottenere le gradazioni desiderate.
Nello specifico, per quanto concerne i liquori, la tecnica consiste nel macerare frutta, erbe o spezie in una soluzione idroalcolica per quindici giorni circa. A questa va poi aggiunta una quantità di zucchero variabile da 200 a 350 grammi per litro.
Nei Bitters si possono utilizzare due metodi: macerazione promiscua di tutti gli ingredienti e macerazioni singole, dove ogni ingrediente viene macerato individualmente in una soluzione idroalcolica alla gradazione ideale e per adeguati periodi di tempo. La quantità di zucchero ideale per un bitters è di 100 grammi per litro, al massimo. Per i Bitters classici, più amari in virtù dell’utilizzo di cortecce e radici, si utilizza il caramello, mentre per quelli fruttati o floreali si preferisce lo sciroppo di zucchero bianco o di canna, ad esempio nell’Orange o nel Bergamotto Bitters.
Nel caso di vini aromatizzati, la preparazione è leggermente più complessa in quanto i botanical più delicati vanno macerati nel vino mentre i più duri e strutturati in alcol. Dopo un periodo di circa 15 giorni, i liquidi vanno filtrati, miscelati e dolcificati con zucchero o caramello.
Tra le tecniche moderne, erroneamente chiamate molecolari, alcune risultano molto utili e fanno risparmiare fatica in termini di servizio al bar.
Il problema qui è quello di scadere nella spettacolarizzazione della tecnica al fine di impressionare l’ospite, cosa che non deve mai accadere.
L’affumicatura, ad esempio, può essere completamente disomogenea se applicata a ogni drink singolarmente: in sostanza, ogni drink otterrebbe un diverso livello di affumicatura ad ogni utilizzo della smoking gun. È sicuramente più efficiente utilizzare l’apparato per affumicare un unico ingrediente, al fine di ottenere la giusta costanza e ripetibilità di utilizzo: ad esempio possiamo riempire a metà un barattolo Quattro Stagioni con uno sciroppo di zucchero e insufflarlo con il fumo prodotto dalla smoking gun, utilizzando elementi aromatici quali tè, erbe officinali o spezie, e ripetendo l’operazione dopo un paio d’ore. Quando il livello di affumicatura avrà raggiunto l’aromaticità desiderata, possiamo utilizzare l’ingredienti nella consapevolezza che la ripetizione di un drink sarà costante ed identica.
La carbonatura artificiale dei drink può essere ottenuta in diversi modi, anche se due possono essere considerati i più sicuri: Perlini Shaker o Isi Cream Syphon. In entrambi i casi gli apparati si utilizzano come comuni shakers, ai quali si aggiunge anidride carbonica per cui l’operazione di shake avviene in presenza di bollicine.
Il drink ottenuto avrà un ottimo perlage e una texture cremosa. I costi elevati del Perlini Shaker consigliano di orientarsi su un sifone Isi da crema, visto che il sistema di funzionamento è pressoché lo stesso. I drink possono essere serviti direttamente straight up, on the rocks oppure imbottigliati in bottigliette stile crodino/tonica e tappate con tappo a corona (questo determina la gran parte del lavoro da effettuarsi prima del servizio).
Una recente tendenza è quella di creare una doppia consistenza in un drink: è il caso dell’utilizzo di arie e velluti ottenibili con lecitina di soia o sucro estere. La lecitina produce delle spume estremamente ricche di aria e soffici mentre con il sucro si ottengono spume più compatte e dense. Non raccomando mai l’utilizzo della lecitina per via delle “offnotes” (sentori di cartone bagnato non sempre piacevoli), mentre faccio un buon utilizzo del sucro che permette più opportunità. Innanzitutto, si può utilizzare con miscele alcoliche e analcoliche, a differenza della lecitina che lavora solo in presenza di soluzioni analcoliche. Inoltre è possibile creare velluti neutri (a base di vodka, acqua e zucchero), nei quali utilizzare delle sostanze aromatizzanti da nebulizzare sulla superficie del drink oppure velluti aromatizzati con sciroppi e liquori, succhi o infusi.
Sebbene l’invecchiamento dei cocktail sia stato proposto già a partire dagli anni venti del secolo scorso, oggi è considerato un valore aggiunto per ogni bar di livello. Le tecniche comunemente utilizzate sono diverse e tutte puntano ad ossidazioni più o meno rapide. Un primo sistema può consistere nell’affinamento dei cocktail in bottiglia, seguendo le indicazioni relative ai vini tradizionali o fortificati come Porto, Marsala e Sherry. Per prima cosa, bisogna portare il cocktail a una gradazione adeguata e quindi aggiungere la quantità d’acqua necessaria per la diluizione in modo che le reazioni chimico fisiche siano possibili (massimo 22,25 gradi). In questo caso si punta ad un lento scambio d’ossigeno tra l’esterno e l’interno della bottiglia da effettuarsi in una cantina o in un luogo adeguato, cioè assenza di odori, con temperatura intorno ai 18 gradi e umidità non superiore ai 70 gradi. Dal momento che il passaggio di maggiori quantità di ossigeno velocizzano gli effetti dell’ossidazione, alcuni professionisti lasciano le miscele a diretto contatto con l’aria, in contenitori non tappati, ottenendo rapidi “invecchiamenti” dei liquidi contenuti. Questa tecnica “velocizzante” può essere accentuata lasciando in infusione alcuni chips di botti di rovere usate nel drink, in modo da costruire un profilo legnoso nella bevanda. I migliori e più affascinanti metodi risiedono nell’utilizzo del legno. L’invecchiamento di distillati e cocktail in piccole botti di rovere, ciliegio, gelso, acacia e castagno, è una tecnica molto in voga negli ultimi anni anche se, recentemente, è stato scoperto che alcune aziende, come la Heublein (in seguito Diageo) negli Stati Uniti, all’inizio del novecento vendevano cocktail invecchiati in botte e/o affinati in bottiglia.
La tecnica consiste nel miscelare un drink senza ghiaccio, per evitare diluzioni, e di lasciarlo riposare in botte per un periodo più o meno lungo.
La maturazione in legno ha lo scopo di ammorbidire, arrotondare gli “spigoli” del liquido contenuto e renderlo quindi più armonico.
Questa armonia avviene tramite un lento scambio di ossigeno che favorisce la polimerizzazione delle molecole del drink/distillato. Inoltre, alcuni legni cedono i cosiddetti “Tannini Gallici” o “Nobili” che si fondono con quelli eventualmente presenti nel liquido, creando lunghe catene che lo rendono più elegante e “snello”. Infine, il legno cede al liquido contenuto la sua aromaticità, arricchendolo di aroma e gusto. Tanto più grande è la botte tanto più tempo sarà necessario al liquido per maturare.
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6200 euro: il cocktail più costoso del mondo
Legacy è la miscela creata dal maestro Salvatore Calabrese a Londra, utilizzando ingredienti vecchi più di due secoli.
Con il suo cocktail da 6.200 euro (5.500 sterline), Salvatore Calabrese detiene dal 2012 il record per il cocktail più costoso del mondo; superando quello precedentemente detenuto dallo Skyview Bar di Dubai (circa 4mila euro). È il Salvatore’s Legacy: la miscela creata nel suo bar all’interno del Playboy Club di Londra e che è frutto di un’esperienza trentennale, iniziata lavorando in un piccolo locale di Maiori, costiera amalfitana.
C’è una precisa ragione per cui il cocktail ha raggiunto questo prezzo stellare: alcuni degli ingredienti utilizzati da Salvatore hanno più di due secoli di vita. Per il suo Legacy, infatti, lo storico barman – soprannominato dagli inglesi The Maestro – ha utilizzato un cognac del 1778 (Clos de Griffier Vieux), un Kummel (liquore aromatizzato al cumino e al finocchio) del 1770 e un Dubb Orange Curacao del 1860; il tutto arricchito da due gocce di angostura dei primi del ‘900.
Maestro Calabrese 2 Tutti gli ingredienti utilizzati provengono dalla collezione privata di Salvatore, che si è trasferito a Londra quando aveva circa vent’anni e da allora non ha più smesso di apprendere l’arte del cognac; collezionando, assaggiando e servendo alcune delle bottiglie più antiche e ricercate. La sua collezione personale vale più di un milione di euro ed è in mostra nel bar: meta internazionale per gli appassionati che possono permettersi di assaggiare qualcuno dei suoi ricercatissimi cognac.
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Nel video in cui mostra la prima preparazione del cocktail, avvenuta nel 2012, si intuisce quale sia stato il momento più delicato: l’apertura di bottiglie così antiche. “Per fortuna ho avuto le mani molto ferme”, commenta Calabrese. Per battere ufficialmente il record, un anonimo ha dovuto effettivamente acquistare il cocktail (di cui è stato anche mostrato lo scontrino); mentre non sono servite ulteriori prove per dimostrare che il Salvatore’s Legacy è anche il cocktail più antico, visto che gli ingredienti hanno un’età complessiva di 730 anni (due bottiglie risalgono all’epoca della Rivoluzione Americana).
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Cuna Del Daiquiri Cocktail – La Habana Cuba (1939) di Constantino Ribalaigua
Per i viaggiatori della Pan Am, in panciolle nella prima classe tra la Florida e Cuba, la fuga dal Proibizionismo (1919-1933) e verso l’esotico, iniziava subito dopo il decollo.
A bordo si partiva con le prime libagioni in attesa di fare tappa a El Floridita de l’Avana, posto fisso di tanti nomi illustri.
A partire dall’aficionado Ernest Hemingway, per passare a una pletora di nomi illustri: dal peso massimo Rocky Marciano al Duca di Windsor, dal matador Miguel Dominguin al romanziere Tennessee Williams, fino alla diva Marlene Dietrich. El Floridita, un elegante locale in stile neoclassico con un tocco di gusto creolo, era l’ultima reincarnazione di uno dei più antichi siti de L’Avana.
Era già stato El Florida e prima ancora, si parla del 1820, La Piña de Plata, l’ananas d’argento. Nel 1918 Constantino Ribalaigua Vert prende in mano la barra del locale.
“Constante” è di origine catalana, figlio di un pescatore, ed emigrato a Cuba quattro anni prima per buttarsi subito nel mestiere di barman o di cantinero, per dirla in lingua originale.È un tipo che parla poco e dai modi eleganti. È il padrone di casa di quella che è considerata La Cuna del Daiquiri, la culla del Daiquiri. Nel libro omonimo troverete cinque varianti del Daiquiri.
La quarta, quella frozen, è firmata dallo stesso Constante ed è considerata l’autentica del locale.
In altre parole, per ordinare un Daiquiri “normale” al Floridita dovreste chiedere un Daiquiri Natural. Ma il locale, ristorante con cocktail bar, non è stata solo la culla del Daiquiri.
È qui che nel 1938 gli americani della Waring mettono in pista i primi test sul blender.
Sempre qui Don Narciso Sala Parera, proprietario dal 1898 al 1918, introdusse la pratica del throwing (o rolling) al posto dello shaking, in seguito esportata dal cugino Miguel Boadas sulla Rambla di Barcellona.
Sempre a El Floridita Constante ha fatto conoscere drink autoctoni cubani come Mary Pickford, El Presidente, Mulata.
E nello stesso locale furono indette le prime riunioni dell’Asociation dei Cantineros de Cuba fondata nel 1924.
Quando consulterete questo volume non sarete di fronte solo a un buon ricettario, ma un tassello fondamentale della storia della miscelazione mondiale. -
Hard Seltzer – il must have di quest’estate?
Gli Hard Seltzer sono bevande moderatamente alcoliche e con un basso contenuto di calorie. Contengono infatti solo acqua gassata (seltz), alcool e spesso aromi di frutta. Il loro processo di produzione è molto simile a quello della birra, dando origine ad un prodotto di facile consumo.
Come si producono gli Hard Seltzer?
Come anticipavamo prima, gli Hard Seltzer sono prodotti con un processo di fermentazione a freddo: zucchero o malto d’orzo sono gli ingredienti fermentescibili utilizzati. Con l’aggiunta di aromi nasce così una bevanda alcolica a basso contenuto di zuccheri e calorie, con una gradazione alcolica di circa 4-6% vol/vol che la rende la bevanda ideale e versatile per diversi momenti.
Quale può essere il motivo del loro successo?
L’Hard Seltzer si presenta come una bevanda a basso contenuto alcolico, dal gusto rinfrescante, leggero, unico nel suo genere: un perfetto mix di poche calorie e gradazione che porta il consumatore consapevole a prediligere questa tipologia di drink. E’ infatti il prodotto ideale per chi è attento sia al consumo di alcool che a quello di zuccheri.
L’Hard seltzer risulta essere un prodotto fresco per gli amanti degli aromi di frutta e allo stesso tempo dal prezzo accessibile. Una perfetta alternativa anche per le persone celiache che molto spesso si ritrovano in difficoltà sulla scelta di un aperitivo leggero.
Come per i Ready to Drink, si tratta inoltre di una bevanda già pronta all’uso, e dal pratico packaging spesso in lattina, leggero e facile da trasportare. Immaginatevi di essere in una spiaggia esotica o ancora in città mentre state camminando per le strade, tutto questo sorseggiando un Hard Seltzer!
The Spiritual Machine sposa con entusiasmo la natura e le caratteristiche di questa nuova tipologia di bevanda. In un mercato globale come quello di oggi, un prodotto che si coniuga così bene al concetto di “drinklessdrinkbetter” è quello di cui il consumatore finale ha bisogno!
Non possiamo dilungarci troppo ma…che forse qualcosa di spumeggiante stia prendendo forma? Chi lo sa…stay tuned!
da. In un mercato globale come quello di oggi, un prodotto che si coniuga così bene al concetto di “drinklessdrinkbetter” è quello di cui il consumatore finale ha bisogno!
Non possiamo dilungarci troppo ma…che forse qualcosa di spumeggiante stia prendendo forma? Chi lo sa…stay tuned!
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LA STORIA DELLA NASCITA DELL’I.B.A
IBA, la nascita
L’International Bartenders Association nasce ufficialmente il 24 febbraio 1951, tra le sale del Gran Hotel di Torquay, nel sud dell’Inghilterra. Alla riunione sono presenti 20 delegati di sette associazioni, che rappresentano i paesi di Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Olanda, Italia, Svezia e Svizzera.
Durante il congresso viene eletto il primo presidente, Mr Billy Tarling della UKBG (United Kingdom Bartenders Guild). La presenza italiana è notevole e di grande importanza: nel congresso di Torquay i barman Angelo Zola, Rigoletto Benedetti e Luigi Parenti rappresentano l’A.I.B.E.S.IBA e Italia
L’autorevolezza italiana è evidente e continua: nel congresso del 1960 Angelo Zola evidenzia la necessità di regolare i cocktail internazionali secondo delle direttive. Mr. Zola è anche il delegato più volte eletto presidente nella storia dell’IBA, contando sei mandati. A Mr. Angelo Zola è intitolato il premio più importante e prestigioso rivolto ai bartender, il celebre Angelo Zola Prize.
Secondo gli archivi dell’IBA fu Mr. Luigi Parenti, presente alla nascita dell’associazione, a tenere memoria dei fatti e della storia dei congressi IBA. Un altro membro italiano, Mr. Umbero Caselli, è stato eletto quattro volte tra gli anni 80 e il 2000.
Attualmente l’IBA conta 63 paesi membri: l’Italia mantiene la propria tradizione di membro fondamentale grazie alla presenza di Mr. Giorgio Fadda, vice presidente IBA.I ricettari IBA
I cocktail IBA ufficialmente codificati sono 77, e sono inclusi nel quinto ricettario ufficiale, stilato nel 2011. Dal 1961 ad oggi si sono susseguite cinque liste ufficiali, con drink differenti.
Nelle cinque edizioni vi sono state molte variazioni: i cocktail IBA presenti nei ricettari sono cambiati. Allo stesso modo anche le modalità di codifica sono variate: le misure, il numero di ingredienti, le categorie e le presenza di varianti.Primo ricettario IBA:1961
Nel 1961 in Norvegia presso il Gausdal Mountain Hotel di Oslo viene stilata la prima lista dei cocktail IBA. I paesi che aderiscono all’International Bartenders Association si impegnano a rispettare le indicazioni fornite per la costruzione dei cocktail IBA.
La codifica dei drink IBA è il risultato di un anno di lavori: nel 1960, infatti, i rappresentanti dei paesi appartenenti all’IBA si riuniscono All’Hotel Scribe di Parigi. In quell’occasione il barman Angelo Zola propone la formazione di un comitato che uniformi le ricette dei cocktail. Ogni paese membro dovrà inivare le ricette in uso, che verrano discusse nel congresso del 1961 al fine di elaborare la prima lista dei cocktail internazionali IBA.
La prima lista dei cocktai IBA conterrà 50 cocktail, suddivisi in tre categorie: pre dinner, after dinner e any time. Le riccete dei cocktail IBA sono espresse in frazioni.Secondo ricettario IBA: 1986
Il trascorrere del tempo propone alcuni cambiamenti in ogni aspetto della società; anche i cocktail IBA rientrano in questo status. Alcuni drink IBA non vengono più richiesti, e la semplificazione in frazioni delle ricette voluta dalla lista del 1961 ha reso alcune ricette storiche prive di interesse.
Nel congresso di Amsterdam del 1985 si decide di modificare la lista dei cocktail ufficiali IBA, che verrà stilata nella successiva riunione del 1986 a Deauville, in Normandia.
La seconda edizione dei cocktail ufficiali IBA prevede alcune importanti novità. Le ricette dei cocktail IBA sono espresse in decimi e vengono inserite nuove unità di misura come dash, spoonful, teaspoon, barspoon, grammi e centilitri.
I drink sono suddivisi in quattro categorie: pre dinner, after dinner, any time, long drinks. Il nuovo ricettario comprende 73 cocktail e 7 varianti. Nella nuova lista è presente una appendice che comprende 25 cocktail vincitori dell’ International Cocktail Competition dell’IBA. In questo modo barman e cocktail vengono premiati.
La lista dei cocktail ufficiali IBA del 1986 risulta molto controversa e confusionaria.Terzo ricettario IBA: 1993
Il terzo ricettario dei cocktail IBA nasce nel 1993 presso l’Hotel Intercontinenatl di Vienna. Il compito principale del congresso è stilare una lista cocktail che ripari alle numerose polemiche del precedente ricettario IBA.
I cocktail vengono ridotti da 73 a 60 e alcune varianti sono incluse in un solo drink. Le ricette dei cocktail ufficiali IBA sono espresse in decimi: alcuni drink riportano però il vecchio frazionamento in terzi. Tutti i cocktail non potranno includere più di cinque ingredienti, per creare drink equilibrati.
I drink IBA sono suddivisi secondo le carattersitiche: Short Drinks – Pre-dinner/After-dinner Long Drinks – Alcolici/Analcolici. Nella lista del 1993 sono presenti 4 analcolici.Quarto ricettario IBA: 2004
Il congresso IBA del 2004, presso l’Hotel Riviera di Las Vegas, sancisce la nascita del quarto ricettario dei cocktail ufficiali IBA.
I cocktail IBA vengono ridotti rispetto al precedente ricettario, passando da 60 a 54. In seguito la lista verrà revisionata più volte: i cocktail diventeranno 58, 65 e infine 66.
La più importante novità è l’introduzione del conteggio in centilitri: in questo modo si unifica la preparazione dei drink IBA. Le varianti dei cocktail vengono reintrodotte. La suddivisione dei cocktail viene rivista secondo le nuove categorie: pre dinner, after dinner, long drink, the most popular e special cocktail. Curiosamente, quest’ultima categoria includerà un solo cocktail, il Lady Boy, e cioè l’ultimo aggiunto.Quinto ricettario IBA: 2011
Durante il 60° anniversario della fondazione dell’International Bartenders Association si assiste alla nascita del quinto ricettario dei cocktail IBA. Il congresso dell’Hotel Hilton di Varsavia decreta una nuova lista dei cocktail internazionali IBA.
I cocktail sono 68, ai quali veranno aggiunti alcuni famosi drink iba esclusi e delle varianti che ritornano ad avere la propria unicità. La lista dei cocktail IBA definitiva contiene 77 drink suddivisi in tre categorie: The Unforgettables, Contemporary Classics e New Era Drinks.
Le ricette dei cocktail IBA sono espresse in centilitri e once liquide e la categoria dei drink IBA The Unforgettables viene consegnata alla storia. Si decreta infatti che i cocktail appartenenti a tale categoria non potranno essere esclusi nelle versioni successive.I cocktail IBA sempre presenti
Dal 1961 ad ora, dopo cinque ricettari, i cocktail IBA sempre presenti sono solo otto: Bloody Mary, Daiquiri, Grasshopper, Manhattan, Negroni, Paradisee Rose. A questi drink si uniscono Bacartdi e Planter’s Punch, sempre presenti con denominazioni differenti.
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La storia del vero Mojito: il più famoso cocktail cubano, inventato da Sir Francis Drake
Nel XVI secolo per assalire navi, depredare le coste e trafficare gli schiavi ci voleva fegato, in tutti i sensi: pazienza poi se te lo giocavi dopo pochi anni. Il “coraggio liquido” sulle navi di Francis Drake, cavaliere della corona inglese non proprio esemplare, si chiamava El Draque, come il soprannome latino del famoso pirata: una miscela – che qualcuno dice ideata proprio durante l’assedio de L’Avana nel 1586 – a base di zucchero di canna, succo di lime, foglie di hierbabuena (nome forse un po’ allusivo, ma si tratta solo della menta selvatica cubana), acqua e aguardiente (o tafia), un’acquavite distillata dalla canna da zucchero. Una sorta di rum non invecchiato che in questo antenato “grezzo” del Mojito svolgeva perfettamente il compito di scaldare gli animi dei marinai e anche di non far marcire l’acqua nelle botti, dove era appunto pre-diluito; il lime invece con la sua vitamina C combatteva la malattia che si diffondeva sulle navi, lo scorbuto. Il Mojito come lo conosciamo oggi comparve dalla seconda metà dell’Ottocento con la nascita del vero rum, quando cioè Don Facundo Bacardi y Massó perfezionò le tecniche di distillazione e invecchiamento fondando poi l’omonima distilleria.
Mojito, l’incantesimo che stregò Ernest Hemingway
Quando dici “cocktail” e “Cuba” salta fuori sempre lui, Ernest Hemingway, personaggio sorprendente tanto per le sue doti letterarie quanto per quelle di bevitore, che lo portarono a soffrire di epatite. Lo scrittore era innamorato dell’isola caraibica, dove vi soggiornò a più riprese tra i primi anni Trenta del Novecento e gli anni Cinquanta, quando si trattenne a L’Avana per un paio di anni per la stesura de Il vecchio e il mare, con il quale nel 1953 vinse il premio Pulitzer e il premio Nobel nel 1954.
A questo innamoramento contribuì di certo anche Angel Martinez, dal 1942 bartender de La Bodeguita del Medio dove Hemingway era solito consumare il suo Mojito “speciale”, con rum bianco e rum scuro miscelati insieme. “My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita” lasciò scritto all’interno del locale, una frase leggendaria che fece la fortuna dei due cocktail cubani. E chissà se il nome mojito (che potrebbe derivare dal termine voodoo “mojo”, “incantesimo”) non nacque proprio osservando lo scrittore stregato da quel nettare.Mojito, non Caipirissima!
Buono, buonissimo. Ma molti di noi il vero Mojito non l’hanno mai assaggiato. Soprattutto se lo abbiamo bevuto sempre al di fuori di Cuba, dove si consuma quotidianamente il sacrilegio della ricetta originale: il “Mojito sbagliato” o “pestato” si prepara schiacciando sul fondo del bicchiere fette di lime, zucchero grezzo e foglie di menta e aggiungendovi poi ghiaccio tritato e rum. Eccovi servita dunque tecnicamente una Caipirissima alla menta e non un Mojito. La variante italiana “Baxeichito”, nata a Genova a fine anni ’90 nella Ostaia de Banchi, si basa su questa formula sostituendo il basilico alla menta.
Per la ricetta originale cubana invece gli ingredienti sono questi.
4 cl di rum bianco
3 cl di succo di lime fresco
6 rametti di menta (meglio se hierbabuena)
2 cucchiaini di zucchero di canna bianco
Soda o acqua gasataPreparazione
Mettete in un tumbler alto zucchero, succo di lime, rum e menta. Amalgamate il tutto premendo delicatamente le foglie di menta (ma non usate il pestello!), poi unite ghiaccio a cubetti (quello tritato si scioglie subito e annacqua tutto) e la soda. Decorate con un rametto di menta.
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Il Gin, la sua storia, la sua avventura
Pianta di Ginepro Pianta di Ginepro 2
Se parliamo di gin dobbiamo parlare di una storia di coraggio, di amore, di sofferenze e di calamità. Se parliamo di gin parliamo di una storia di medicina, politica e società, e di innovazione, di mode e di intuizioni geniali. La storia del gin non è una storia come tutte le altre.
Provate a vivere con l’immaginazione la strada che il gin ha percorso fino ad arrivare oggi ai vostri bicchieri. Provate a pensare alla storia del gin come ad un romanzo che intreccia la vita di milioni di persone, di tutte le classi sociali e in differenti periodi storici. Venite a scoprire come il gin ha cambiato il mondo…
Quando parliamo di gin dobbiamo parlare di ginepro.
esistono ben 65 tipi diversi di ginepro
Il ginepro è una conifera che cresce in un clima temperato freddo, preferibilmente montano. E’ diffuso in tutto il mondo e ne esistono ben 65 tipi diversi. E’ conosciuto per le sue doti medicamentose ed è molto apprezzato in cucina.
I primitivi si nutrivano delle sue bacche, gli Egizi lo utilizzavano per l’imbalsamatura, nel Medioevo si conoscevano già le sue doti curative per lo stomaco e in Italia nell’XI secolo si produceva già un cordiale a base di acquavite e di ginepro nelle scuole di medicina monastica.
E’ infatti italiano il primo proto-gin di cui si hanno notizie nella letteratura. Nelle colline intorno a Salerno crescevano rigogliose piante di ginepro che venivano utilizzate negli alambicchi di monaci e farmacisti. In una raccolta di trattati del 1055, il Compendium Salernita, si parla di un distillato di vino, infuso con bacche di ginepro.
Nella metà del 1200, Pedro Julião, successivamente Papa Giovanni XXI, descrisse in un trattato sulla cura degli occhi, il Liber de Oculis, un altro tipo di proto-gin definito “acqua degli occhi”, un cordiale fatto con diversi “botanicals”.
E proprio in questo periodo i monasteri iniziarono a produrre in proprio dei cordiali caratteristici, con miscele di erbe e spezie locali, e questi diedero poi vita a ricette che troviamo ancora oggi in commercio, come per esempio il cordiale Bénédictine prodotto per la prima volta nell’abbazia di Fécamp, in Normandia, da un monaco benedettino di Venezia, Bernardo Vincelli.
Nel 1055, all’ interno del Compendium Salernita, si parla di un distillato di vino, infuso con bacche di ginepro
La diffusione dei primi veri e propri distillati avverrà proprio a cavallo tra il 1200 e il 1300. Arnaldo da Villanova, medico catalano, fu il primo a utilizzare il termine aqua vitae (acqua della vita) e a consigliare l’uso di questo liquido anche al di fuori dall’ambito medicale. Successivamente un suo pupillo, Ramon llull, introdusse i primi concetti riguardanti le distillazioni multiple per rendere il distillato più puro.
Il concetto di acquavite al ginepro in quanto tonico ed energizzante prese sempre più piede e il consumo dei cordiali, dal latino cordis, “cuore”, era un medicinale diffusissimo durante la Peste nera a metà del XIV secolo.
La maggiore diffusione delle bacche di ginepro ad uso medicinale la troviamo nei Paesi Bassi, (Belgio e Olanda). Già nel 1269 nel volume enciclopedico Der Naturen Bloeme Volkeren il dottor Jacob Van Maerlant raccontò gli effetti benefici di un decotto di bacche di ginepro e vino usato per curare i crampi e i dolori di stomaco. Un secolo dopo Jan van Aalter descrsse in un’altra pubblicazione gli inebrianti effetti del jenever.
La prima menzione della bevanda in quanto “gin” risale al medico di Anversa Philippus Hermanni. Nel suo libro A Constelijck Distileerboec dal 1552 menzionò l’Aqua juniperi ben 98 anni prima del collega olandese Franciscus Sylvius con il suo genoa, da molti considerato l’inventore del gin.
Una svolta importante avvenne con la caduta di Anversa nel 1585. Circa la metà della popolazione fuggì dalla città, portando con sè il proprio gin. L’Inghilterra inviò una spedizione tentando invano di salvare la città, ma non riuscì a invertire la tendenza. Fu così che gli inglesi impararono a conoscere il gin, che chiamarono Dutch Courage, il goccetto che dava coraggio ai soldati olandesi. L’introduzione di questa bevanda in Inghilterra portò alla creazione dei gin in stile inglese che conosciamo oggi ed è qui che venne attribuito il nome gin al distillato.
“prolunga lo stato di buona salute, disperde gli umori superflui, rianima il cuore e mantiene giovani” – Arnaldo da Villanova sull’Aqua vitae
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Da New York a Londra impazza la moda del mocktail: ma cos’è?
In gergo cinematografico il mockumentary è un genere di finzione che ricalca stile e linguaggio del documentario. La parola è la crasi di due termini: I MOCKTAIL SONO MISCELAZIONI ORIGINALI E PRIVE DI ALCOL FRUTTO DELL’ESTRO E DELLA CREATIVITÀ DEL BARTENDER documentary si fonde con mock, ovvero finto e, se usato come verbo, significa prendersi gioco o fare il verso. Lo stesso meccanismo è applicato per la parola mocktail che sta a indicare reinterpretazioni di cocktail classici o miscelazioni originali ma rigorosamente prive di alcol. In ambito alimentare, come è noto, l’attenzione nei confronti di gusti, scelte o esigenze diverse è crescente. È altresì vero che negli ultimi anni, uno dei maggiori trend è stato sicuramente la ri-scoperta della mixology di qualità: drink sempre più equilibrati, pensati da bartender estrosi, che utilizzano succhi, tinture e bitter fatti in casa con distillati di pregio.
L’unione di queste due tendenze ha portato all’ampliamento dell’offerta di alternative analcoliche. Finalmente anche gli astemi e coloro che, anche momentaneamente, vogliano o debbano evitare l’alcol, possono bere qualcosa di interessante e testare la bravura di un barman. Non si tratta solo di riproporre cocktail privati della componente alcolica ma di ricorrere alla creatività, per cercare la combinazione giusta di ingredienti naturali, al fine di superare perfino il ricorso a bevande gassate, sciroppi ricchi di zuccheri o succhi di frutta industriali.
Insomma sono finiti i tempi dello Shriley Temple, del San Francisco o del Virgin Colada, i mocktail attuali non si accontentano di limitare i danni ma puntano ad essere addirittura salutari, con le varianti detox, energizzanti o dimagranti. La frutta resta certamente protagonista assoluta: agrumi, ananas ma anche mirtilli e melograno, da aggiungere magari a carote, sedano, menta, cetrioli, basilico, semi di chia e mandorle; jolly immancabili sono la curcuma e lo zenzero, le cui proprietà sembrano infinite. Grande popolarità anche per l’acqua di cocco ed il tè verde che spesso rappresentano la base della miscelazione.
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Al di là dell’aspetto prettamente salutista, interessante è il punto di vista di chi si trova a fare i conti quando entra in gioco l’abbinamento con il cibo. Si parte inevitabilmente con un vuoto da colmare in termini di acidità, pienezza del corpo e sensazione di calore, soprattutto quando si tratta di tenere testa alla complessità di alcune ricette. E allora le strade sono due: trovare soluzioni con determinati ingredienti capaci di fornire un profilo aromatico e sensazioni boccali tali da sopperire all’assenza di alcol (alghe, peperoncino, erbe aromatiche) oppure ricreare le sensazioni organolettiche di cocktail tradizionali o addirittura di grandi vini, in una bevanda analcolica. Emblematico è il caso del menu Temperance Pairing Program dell’Atera di Manhattan, casa dello chef danese Ronny Emborg. Qui si cerca di unire la tradizione scandinava dell’abbinamento con i succhi – Rene Redzepi docet – all’arte della mixology americana, arrivando a proporre cose come il Nogroni, mocktail che appunto simula il più noto Negroni.
Questa tendenza ha sicuramente il merito di stimolare gli addetti al settore, obbligati, come durante il proibizionismo, a riscoprire certi ingredienti o per lo meno a rivalutarne l’utilizzo. L’effetto domino partito dai banconi dei cocktail bar ha coinvolto inevitabilmente anche le cucine di importanti ristoranti e non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Australia e Gran Bretagna. LA MODA DEL MOCKTAIL STA PRENDENDO PIEDE ANCHE IN ITALIA Per capire lo stato delle cose in Italia è utile volgere lo sguardo all’esperienza della Settimana della Sicurezza Stradale del maggio 2015, targata Michelin. Ai 39 chef italiani con due o tre stelle, fu chiesto di approntare un menu dedicato al tema e, ovviamente, la questione della riduzione dell’alcol era assolutamente centrale. L’unico a proporre quello che potremmo definire un mocktail fu Moreno Cedroni con una bevanda energetica a base di lime e zenzero. A Davide Scabin va invece il merito di aver pensato a un intero percorso di abbinamento, con succhi e nettari naturali. Tutti gli altri si sono praticamente limitati a raccomandare di bere con moderazione. Il mercato risponde con entusiamo a questo nuovo trend e, a parte le pubbliche esternazioni di Gualtiero Marchesi, il quale afferma di non toccare alcol da circa 20 anni, anche in privato qualche grande chef ha ammesso di provare un certo piacere nel giocare con le bevande analcoliche. C’è da aspettarsi un’inversione di tendenza?
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L’evoluzione del bere salutare
Cocktail bar specializzati in analcolici e drink leggeri aprono ovunque, specie in America. E se pensate al decrepito “analcolico alla frutta della casa” siate pronti a ricredervi…
Mocktail significa cocktail finto. In italiano suona come cocktail da moccioso. Analcolico, con poca verve e per questo meno sexy? Forse un tempo, oggi no. Fortunatamente le cose sono cambiate. Siamo lontani gli anni Duemila quando sui banchi sfilava ancora un mesto esercito di miscelati senza nome, senza patria, relegati agli angoli bui del menu. Erano i “cocktail alla frutta della casa”. Una banda poco allegra in cui spiccavano succhi di frutta, più o meno distinguibili, serviti con ciliegina color rosso marziano, in un bicchiere in cui svettava una testa di delfino ricavata dalla decapitazione di una banana. L’evoluzione dei costumi, gli astemi per scelta religiosa o di salute, i maniaci delle calorie e la stradale, che giustamente non perdona gli sgarri, hanno portato sempre più persone a scegliere analcolici o low alcohol drinks, cocktail a basso contenuto alcolico. Ma cosa si intende esattamente per cocktail low alcohol e analacolici?
Case history di successo
Sulla base del loro contenuto alcolico le bevande miscelate rientrano in tre grandi “famiglie”. Le Nad (non alcoholic drinks) hanno un contenuto alcolico uguale o inferiore all’1% in volume; le Mad (medium alcholic drinks, tra i 2 e i 21 gradi) e le Vad, very alcoholic drinks, sono sopra la linea dei 21 gradi. Usiamo espressioni inglesi non sono solo per forma, ma per ragioni di cronaca. È successo che a New York, all’incirca negli stessi luoghi nei quali Carrie e le altre ragazze di Sex and the City, negli anni Novanta, facevano baldoria con Cosmopolitan e martinis, ha aperto un anno fa un locale speciale. Speciale a cominciare dai suoi conduttori: Dave Arnold, innovatore che applica un approccio scientifico a ogni sua creazione; Don Lee, una delle menti più brillanti del settore e Greg Bohem, fondatore di Cocktail Kingdom, colosso nel settore delle attrezzature per bar e bartender. Il terzetto ha dato vita a al locale Existing Conditions, un progetto in cui si valorizzano in egual misura i cocktail alcolici e analcolici. Lavorano con prodotti freschi, utilizzano centrifughe, chiarificano con gusto, refrigerano con azoto liquido e fanno tutto il necessario per assicurarsi di dare la giusta dignità ai loro “pesi leggeri”.
Per lo stesso prezzo – 15-16 dollari – offrono drink alcolici e analcolici. Giusto per ribadire il concetto che non ci sono cocktail di serie A o serie B e che non è la quantità di alcol a fare la differenza in termini di qualità della mistura. Tanto più che l’analisi sensoriale parla chiaro. È infatti tra i 12 ed i 16 gradi alcolici che il nostro palato più facilmente riesce a distinguere ed apprezzare i sapori, ed è all’interno di questa forbice che ancora si ritrovano la maggior parte dei cocktail più bevuti. Questa offerta seria dell’Existing Conditions risponde a una domanda altrettanto rilevante. Quella di un pubblico che cerca alternative più sobrie rispetto al passato. È eloquente il boom dello Spritz in America. Si pensi che il Caffè Dante di New York, al 9° posto dei World’s 50 Best Bars, ha fatto del drink veneto uno dei suoi cavalli di battaglia. Questa semplice bevanda – medium alcoholic cocktail da undici gradi alcolici – nata tra Venezia, Padova e Treviso, è stata trasformata in un oggetto “cool”. Ha subito quello che nel mondo dell’immobiliare è chiamato processo di gentrificazione. Questo fenomeno ha alimentato il fronte sia degli estimatori sia dei detrattori. Normali incidenti di percorso quando qualcuno o qualcosa ha successo. I numeri in Italia, quando si tratta di Spritz, parlano chiarissimo. Una recente ricerca che Bargiornale ha commissionato a Centro Marketing, centro studi del Gruppo Tecniche Nuove, per fotografare i best seller dei bar italiani (3.000 gestori coinvolti, ottobre 2018) rivela che lo Spritz è al primo posto con il 63,8% delle preferenze. Tradotto: due italiani su tre ordinano uno Spritz. Tornando a New York è utile sapere che la domanda di bevande leggere è alimentata da gruppi e associazioni che promuovono uno stile di vita più sano come Sober Curious Movement, composto da chi non vuole etichette (dentro o fuori dall’alcol), ma desidera sentirsi semplicemente libero di scegliere.
Fondato da Ruby Warrington del Club Soda NYC propone un approccio più consapevole alla nostra vita (alcolica) di tutti i giorni. Per intercettare questo nuovo e ampio pubblico alla ricerca di mocktail di qualità ha aperto a Brooklyn il Getaway Alcohol-Free Bar. A primo sguardo, un classico cocktail bar. Ma osservando il menu e gustando i suoi drink ci si accorge di essere capitati in un mondo – analcolico – a parte. Fatto di cocktail speziati, agrumati, con ingredienti tropicali cordiali analcolici e shrub fatti in casa (nella foto). Qui dicono a buzz without a buzz. Una bella sbronza, ma senza sbronzarsi.
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Rum, Rhum o Ron? L’origine, le caratteristiche, i tipi e le zone di produzione del mitico distillato di canna da zucchero
Ex distilleria Caroni Il rum è l’acquavite che si ottiene dalla distillazione della canna da zucchero. Ne abbiamo di due tipi: il migliore, quello più pregiato, il rum agricolo, che viene prodotto partendo dalla distillazione di tutto il succo della canna da zucchero e il rum tradizionale, distillato a partire dalla melassa.
Che cos’è la melassa?
La melassa è lo scarto della lavorazione della canna da zucchero, quindi capite bene che la materia prima più pregiata se ne è già andata, il fiore potremmo dire. In pratica la melassa è buona solo perché ha materia zuccherina e un vago ricordo di quello che una volta era il succo di canna.
Quali sono gli ingredienti del rum e come viene prodotto?
La canna da zucchero viene piantata, cresce per circa 1 anno e mezzo e poi si taglia e si porta tutto in una sorta di mulino, dove le canne vengono schiacciate da grandi ruote di pietra o metallo. Il succo viene raccolto e poi ci sono due strade. O si fa fermentare tutto e allora abbiamo il rum agricolo da puro succo di canna oppure si fa bollire più volte il succo di canna in grossi paioli di rame fino a quando lo zucchero quasi non si solidifica e poi viene estratto, raffinato e trasformato in zucchero. Il resto, la melassa, viene allungato con acqua e fatto fermentare attraverso l’inoculazione di lieviti chimici e distillato come il wash del whisky.
Uno dei pochi rum di melassa che non usa lieviti chimici, ma solo gli indigeni è quello giamaicano. Il cubano come l’Havana è studiato a tavolino con una serie di lieviti che diano sempre lo stesso sapore e una sapiente miscela dei vari rum. Non viene distillato e poi imbottigliato, ma si procede ad un assemblaggio delle varie partite di distillati, perché tutte le milioni di bottiglie di Havana devono avere lo stesso identico sapore.
Non lo stiamo dicendo per criticare, è un dato di fatto, una scelta stilistica e commerciale.
Cosa è il rum agricolo e come si produce?
Nel rum agricolo non si distilla la melassa, ma si distilla il succo di canna puro, il mosto chiamato vesou, fermentato ovviamente, con alambicchi di rame, anche due volte, e si eliminano testa e coda, ossia le impurità. Non differisce dagli altri distillati: il metodo è sempre lo stesso, si fa fermentare un mosto molto zuccherino e poi lo si fa bollire a bagnomaria per far evaporare l’alcol del mosto, in questo modo nulla si crea o si distrugge, succede soltanto che alcol e acqua si separano. I vapori di alcol salgono in una serpentina, che viene raffreddata e così il vapore ritorna allo stato liquido, ma molto più concentrato. Il prodotto distillato viene poi messo in botti di legno e così inizia l’affinamento in botte, ma qui si apre un mondo e ogni distilleria, ogni isola dei Caraibi segue una propria ricetta.
Questa è una distinzione a grandi linee, ma per capire il mondo del rum, prima di andare avanti dobbiamo fare una distinzione territoriale, perché troverete 3 diciture, 3 nomi, rum, che viene dalle colonie inglesi, rhum, da colonie francesi e ron da quelle spagnole e ognuno è diverso, anche nella propria tipologia.
Dove è nato il rum? Ecco i vari tipi di rum in base al paese di produzione
Il rum nasce nelle isole caraibiche, quando la coltivazione della canna da zucchero esplode nelle colonie, grazie al lavoro degli schiavi, che permettono una produzione quasi industriale a costo zero. I primi rum erano acquaviti molto grezze, dal sapore imbevibile, veri e propri torcibudella ad alta gradazione, grazie alle mostruose concentrazioni zuccherine della melassa.
Rum: prodotti in Jamaica, British Windward Islands, Barbados, Saint Kitts, Trinidad e nella zona di Demerara nella Guyana inglese. Ovviamente sia gli alambicchi che la lavorazione ricalcano la grande tradizione scozzese e irlandese del whisky.
Ron: prodotti a Cuba, Guatemala, Panama, the Dominican Republic, Nicaragua, Puerto Rico, Columbia and Venezuela.
Rhum: nato dalla tradizione distillatoria del Cognac. E qui almeno il governo francese ha regolamentato nomi ed etichettature con un disciplinare. Sì, perché forse non lo sapete, ma rum significa caos totale, un far west selvaggio. Anche una distilleria di Shanghai potrebbe produrre rum per assurdo, non esistono leggi che tutelino la qualità e il consumatore, ma neanche i produttori se è per questo…
Se vogliamo schematizzare le tipologie dei rum principali ecco qualche indicazione, non esaustiva.
Il ron cubano è il più leggero, è filtrato e chiarificato, ha un gusto morbido e non è mai troppo intenso o invadente, risulta quindi ottimo per la miscelazione dei cocktail con succhi di frutta, soprattutto il lime.
Il rum giamaicano è forte e sgarbato, scuro, più speziato, si può bere liscio, ma lo troverete in molti cocktail dal sapore complesso e pieno come il Mai Tai, il Dark and Stormy o il Planter’s Punch.
Il rum Demerara è molto forte, pirotecnico, a tratti ruvido e selvaggio come l’isola ricoperta di foreste in cui nasce, ma quando è di qualità è favoloso. Spezie, tabacco, vaniglia, caramello, menta, paprika e mille altri profumi. Nasce nelle Guyana britannica, lungo le rive del fiume Demerara. La El Dorado è la più famosa, così tanto per dirvi un nome di una distilleria storica e un punto di riferimento.
Il cosiddetto A.O.C. Martinique Rhum Agricole è l’unico che possa fregiarsi della AOC (la doc francese) e trae ispirazione dal disciplinare del Cognac. Non dimenticate che l’isola è territorio francese, è considerata Europa. Il disciplinare stabilisce quali tipi di canna si possono usare e dove e la densità d’impianto. I rhum agricoli qui prodotti sono intensi, affilati, ricchi di note complesse e ossidate. La speziatura è moderata, si punta alla finezza e non tanto ai muscoli. J. Bally, Clement, Neisson, J.M., La Favourite.
Il rhum di Haiti è una costellazione di centinaia di piccole distillerie ed è un prodotto meraviglioso, ma dai mille volti. Difficile trovare un filo comune, però possiamo tranquillamente affermare che i prodotti dei piccoli artigiani della canna da zucchero locale sono splendidi, prodotti unici di taglio sartoriale. Il Rum Clairin Sajous distilleria Chelo ad esempio è un piccolo capolavoro di una piccola realtà, un prodotto puro, di cristallina bellezza.
Il Rum Don Papa è un altro rum orientale, viene dalle Filippine ed è caratterizzato da una speziatura molto intensa e dolce.
Ma anche la cachaça è un distillato da canna da zucchero, meno raffinato sicuramente, ma nasce sempre dalla canna da zucchero. Come l’aguardiente colombiana.
La storia del rum
Sembra un controsenso, ma la canna da zucchero e i vari distillati esistevano già prima della scoperta dell’America da parte di Colombo, infatti la canna da zucchero fu importata in Americana in un secondo tempo quando si resero conto che il clima era perfetto per la sua coltivazione.
Ma diciamo che il rum nasce e si sviluppa nei Caraibi. E il rum nasce come alimento, era parte fondamentale dell’alimentazione giornaliera di marinai, schiavi e coloni. Pensate al Planter’s Punch, il drink del coltivatore di canna da zucchero. È strettamente legato alla storia dei Caraibi e del Sud America, il nostro immaginario è costellato di pirati che bevono rum e cercano tesori. Ma era anche un modo per tenere domati grandi strati della popolazione delle colonie, addette alla produzione di zucchero. Ma non solo, prima che il whiskey (bourbon) americano decollasse, anche nelle colonie inglesi del nord si beveva rum. Sarebbe stato folle non usare tutta quella melassa… anche se il rum dei bei tempi passati doveva essere una brodaglia al limite della tossicità ed era molto diverso dai prodotti a cui siamo abituati oggi.
E tutto questo ci porta ad una considerazione finale: perché non vengono definiti e regolamentate le produzioni di rum per valorizzare le migliori zone e creare chiarezza per il consumatore? Esiste un legame forte tra rum e territorio? Quasi, dovrebbe averlo, purtroppo però molti sono i prodotti industriali che di locale hanno ben poco e non rispecchiano molto le caratteristiche della terra di provenienza. Finché parliamo di rum agricoli, soprattutto i francesi delle Martinica, possiamo andare tranquilli, ma i cubani che siamo soliti bere sono fin troppo standard.
Ma poi ribaltando il discorso, se prendiamo in esame un rum come l’Havana, possiamo affermare che è perfetto per fare cocktail come Daiquiri e Mojito. Infatti non serve neanche troppa personalità in questi casi e sul fronte mixology diciamo che il discorso dei rum industriali ancora va. E forse per questo non vogliono creare regole ferree da rispettare…
Come vedete il mondo del rum, ron o rhum (chiamatelo come volete) è molto ampio, ma frammentato, non vi resta che iniziare ad assaggiare e fare confronti. L’esperienza in questo campo è tutto.
Quanti gradi ha il rum?
Solitamente il rum chiaro industriale cubano è il più leggero e ha gradazione alcolica di 40 gradi. I rum agricoli Clairin di Haiti hanno 53-55 e picchiano duro come gli scuri giamaicani. In ogni caso dipende tutto dalla gradazione che il produttore decide di mantenere, aggiungendo più o meno acqua. Ad esempio i rum extra strong come alcuni Caroni raggiungono tranquillamente i 57 gradi. Se trovate sull’etichetta la scritta gunpowder proof significa che ha almeno 54,5 gradi ed è forte. I marinai inglesi facevano la prova della polvere da sparo, mettendone un po’ nel rum. Se si accendeva con una fiamma era ok, altrimenti significava che era stato allungato con troppa acqua e non era abbastanza forte. Ricordiamo che nella Marina Inglese fino al 1970 una buona dose di Pusser’s rum gunpowder proof era parte del rancio giornaliero.
I migliori cocktail a base di rum
Cuba Libre, Dark and Stormy, Basito, Pina Colada, Don Rodrigo, Daiquiri, Planter’s punch, Caipirissima e ovviamente il mitico Mojito cubano.
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IL PROIBIZIONISMO ANNI ’20 – AMERICA GOES DRY
IL PROIBIZIONISMO: LE ORIGINI NEL 1800
La storia del proibizionismo inizia con la storia stessa degli Stati Uniti come nazione indipendente. Nel primo decennio del 1800 ci fu il proliferare delle cosiddette “Società per la Sobrietà” ossia gruppi religiosi e politici che riuscirono a influenzare la politica di Washington con toni moralistici e fondamentalisti circa l’esigenza di un ritorno a una “società sobria”. L’obiettivo era combattere criminalità, violenza domestica ed impurità. Il problema del consumo di alcol era fortemente sostenuto dalle donne, in origine principalmente religiose appartenenti alla classa media.
Nella metà del 1800 furono approvate le prime leggi (ad esempio la “Maine Law” del 1851) che vietavano produzione e vendita di ogni bevanda alcolica, esigendo al contempo maggiore castità di costumi e sobrietà: fu il primo esempio di quello che poi successivamente venne chiamato proibizionismo.
Woman’s Christian Temperance Union
(“Le labbra che toccano un alcolico non toccheranno mai le nostre”)Il proibizionismo si associò presto al nativismo: da un lato i “drys” (gli asciutti), cittadini rispettosi, i “veri” americani delle campagne, bianchi, protestanti e appartenenti alla classe media. Dall’altro i “wets” (gli umidi), le élite delle grandi città costiere e le masse dei nuovi arrivati dall’Europa, stranieri poveri, sporchi e rissosi, dediti all’ubriachezza molesta e al crimine e spesso cattolici. Tra le organizzazioni che sostenevano il proibizionismo c’era anche il Ku Klux Klan.
IL PROIBIZIONISMO DIVENTA LEGGE PER TUTTI GLI STATI UNITI D’AMERICA
Il periodo comunemente conosciuto come “Il Proibizionismo”, che va dal 1919 al 1933, è quindi la punta dell’iceberg di un atteggiamento che aveva preso piede in tempi piú remoti e che era esploso con il divieto assoluto di produzione, importazione, trasporto e vendita di alcolici. Il divieto fu fissato con l’entrata in vigore del 18° emendamento della Costituzione (28 ottobre 1919) e con l’approvazione del Volstead Act, legge entrata in vigore il 16 gennaio 1920. La sera del 15 gennaio, in tutti gli Stati Uniti decine di migliaia di persone si riversarono nei negozi per fare rifornimento delle ultime bottiglie legalmente in vendita. A Chicago, è famosa la vicenda di una banda armata che assaltò un treno e rapinò un carico di whiskey del valore di 100.00 dollari.
“Last Call Day Before Prohibitionism”, 15 gennaio 1920
IL PROIBIZIONISMO: IL CONTRABBANDO E I BATHTUB SPIRITS
Con l’entrata in vigore delle nuova legge, l’alcol iniziò ad essere importato di contrabbando dai paesi in cui era ancora legale; nacquero anche laboratori clandestini dove si realizzavano birra o surrogati del whiskey e di altri superalcolici. La qualità era spesso scadente e gli alcolici erano adulterati con coloranti e sostanze tossiche, i cosiddetti “Bathtub Spirits”. Al fine di renderli migliori al gusto, gli alcolici venivano mischiati anche con altre bevande quali ad esempio coca cola, ginger ale, limone e succhi di frutta. Questi cocktails venivano largamente consumati negli speakeasy, night club clandestini sorti per aggirare il divieto imposto dalla nuova legge.
IL PROIBIZIONISMO: LA NASCITA DEL GANGSTERISMO
Se l’obiettivo del proibizionismo, chiamato anche “the noble experiment”, era quello di moralizzare la società statunitense, di fatto offrì lo spazio per la crescita del mercato nero e del contrabbando di alcolici, con la conseguente espansione della criminalità e della corruzione. Esplode in quegli anni il fenomeno del gangsterismo: sicuramente tutti hanno sentito nominare Al Capone, il più importante boss del traffico di alcolici dell’epoca.
I valori ed i costumi sociali abbracciati per un secolo furono presto cancellati ed il concetto di moralità cambiò. Mentre i criminali divennero celebrità, le autorità divennero impotenti: i consumatori di alcol aumentarono tra i giovani e le donne, le gonne si accorciarono e la musica si scaldò. Dilagò la smania di divertimento e il business dell’intrattenimento si sviluppò considerevolmente.
IL PROIBIZIONISMO: L’INEFFICIENZA
I ricchi, compresi i “drys”, consumavano alcol dalle loro personali riserve o importandolo di contrabbando, mentre i poveri si arrangiavano con prodotti artigianali spesso tossici, possibili cause di avvelenamento o di danni permanenti. Inoltre, il costo dell’alcol era alle stelle, le violenze domestiche continuavano a perpetrarsi e i lavoratori già scarsamente produttivi peggiorarono la loro situazione.
L’inefficienza di proibizione fu presto avvertita dalla classe politica e da alcuni esponenti delle Società per la Sobrietà.
IL PROIBIZIONISMO: LA FINE
Sará il Presidente Roosevelt a decretare la fine del Proibizionismo con la ratifica del 21° emendamento del 5 dicembre del 1933, grazie all’appoggio di Pauline Morton Sabin, fondatrice della Women Organization for National Prohibition Reform (WONPR). I drys definirono la WONPR “un piccolo gruppo di donne amanti del vino che non si sentivano a proprio agio sotto il proibizionismo”; al contrario, nata nel 1929, l’organizzazione contava un milione e mezzo di adesioni giá nel 1933. E’ significativo che furono proprio le donne, inizialmente le piú forti sostenitrici del proibizionismo, a giocare il ruolo fondamentale per porre fine all’epoca dell’America goes dry.
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IL TEQUILA, IL MEZCAL E LE DIFFERENZE…..
Se tutti i tequila sono tecnicamente dei mezcal, non è vero il contrario. In origine tutto l’alcool prodotto a partire dal succo di agave era chiamato mezcal. E’ dal diciannovesimo secolo che la distinzione tra le due acqueviti si è operata, quando la rivoluzione industriale ha reso possibile la cottura dei cuori di agave (le pigne) nei forni a vapore. Un miglioramento tecnico rapidamente adottato dalla maggioranza dei produttori dello stato di Jalisco, che abbandoneranno ai produttori di mezcal di Oaxaca il metodo di cottura tradizionale ( forni scavati nella terra).
IL MEZCAL, L’ANIMA DEL MESSICO
il mercato del mezcal si basa ancora largamente sulla distillazione domestica. Prodotto all’interno delle fattorie, alcune delle quali si trovano a più di 2000 metri di altitudine (San Louis del Rio), la produzione di mezcal si colloca naturalmente nella continuità del lavoro agricolo e supera raramente i 400 litri al mese. Si stima a circa 500 il numero dei produttori di mezcal che usano ancora metodi ancestrali. Dopo il 2005 ogni distilleria, indipendentemente dalla propria dimensione, dispone di un NOM, un numero di identificazione posto sull’etichetta che permette di identificare l’origine del prodotto.
AL CUORE DELL’AGAVE
Sette stati del Messico sono autorizzati a produrre mezcal: Oaxaca, Guerrero,Guanajuato, San Luis Potosi, Zacatecas, Durango e Tamaulipas. I vincoli legati alla tipografia dei luoghi (montagne, suoli poveri) limitano la coltivazione dell’agave, che così non può essere intensiva tranne che nello stato di Jalisco. La coltivazione in terrazza è la più usata e, per le varietà più rare, la resa per ettaro non supera le 400 piante di agave. Se una sola varietà di agave, la Tequilana Weber Azul, è legalmente ammessa alla produzione del tequila, il mezcal può essere prodotto a partire da differenti speci coltivate negli stati; tuttavia domina una varietà chiamata “espadin”.
Agave Espadin
Nello stato di Oaxaca il mezcal espadin rappresenta quasi il 90% delle piante coltivate, cosa che espone i coltivatori locali agli stessi rischi di quelli di Jalisco: la coltivazione di una sola varietà clonata senza tregua provoca l’indebolimento dei geni della pianta e favorisce la proliferazione delle malattie e degli insetti (bruchi).I coltivatori di agave corrono il rischio di perdere in qualche mese il lavoro di molti anni. Al fine di porvi rimedio, molti di loro favoriscono la diversità e selezionano altre varietà.
DEFINIZIONE
Acquavite messicana nata dalla fermentazione e dalla distillazione del succo delle agavi coltivate all’interno dei sette stati autorizzati dalla legge. Esistono numerose varietà di mezcal: espadin, tobalà, tobaziche, cenizo, papalometl. Si distinguono i mezcal 100% agave da quelli misti elaborati a partire da almeno l’80% di succo di agave. Queste due categorie devono obbligatoriamente essere imbottigliate in Messico per poter beneficiare della denominazione Mezcal.
LA PRODUZIONE DEL MEZCAL
1 – DALL’AGAVE AL SUCCO DI AGAVE
Una volta sradicata dal suolo, l’agave è spogliata delle sue foglie per scoprire il cuore: la pigna. Una pigna di 70 chili produrrà circa 10 litri di alcool. Tagliate in due o in quattro, le pigne sono sistemate all’interno dei forni (o palenques) scavati sotto terra: di forma conica, che misurano più di 3 metri di diametro e 2,5 metri circa di profondità, questi forni sono piastrellati di pietre che si preriscaldano 24 ore prima di depositarvi le pigne. Ricoperti dei resti fibrosi di agave ancora umidi dalle cotture precedenti, le pigne sono interrate sotto un ammasso di foglie di palma, di agave e di terra, poi lasciate in cottura per 2 o 3 giorni. Una volta cotte, sono scoperte e messe a riposare all’aria aperta per una settimana.
Si sviluppa allora una prima fermentazione spontanea. Le pigne sono in seguito macinate in un mulino di pietra azionato da un asino o da un cavallo. La polpa, il succo e le fibre sono mescolate ad acqua (circa il 10%) per produrre un liquido dolce.
2 – FERMENTAZIONE E DISTILLAZIONE
Il liquido di fermentazione così ottenuto è versato in una cuve di legno. Inizia allora una seconda fermentazione naturale che può durare da una a quattro settimane. Il mezcal viene poi distillato due volte, eccezionalmente tre. La distillazione si effettua generalmente in alambicchi di rame (introdotti dagli spagnoli) o in ceramica (introdotti dai cinesi). Il mosto vi è versato con una parte dei residui fibrosi dell’agave. Al termine della prima distillazione, l’alambicco è svuotato del suo contenuto prima che sia operata una seconda distillazione.
3 – INVECCHIAMENTO
Tradizionalmente il mezcal è messo a riposare in giare di ceramica. Ma sempre più le cuve in inox tendono a rimpiazzarle. L’introduzione dei fusti è relativamente recente (1950) e si tratta per la maggior parte di fusti ex-bourbon. I fusti ex-sherry sono utilizzati per cuvée speciali.
I TIPI
ESISTONO DUE TIPI DI MEZCAL: I 100% AGAVE E I MISTI.
100% agave: principalmente originati da produzioni artigianali e prodotti in piccolissime quantità, i 100% agave sono elaborati a partire da una sola varietà di agave (“single agave”) o dalla mescolanza di numerose varietà (“blend of agave”). I mezcal 100% non possono contenere altri elementi aggiunti.
Misti: mezcal elaborati a partire da un minimo dell’80% di succo di agave e del 20% di altri succhi, spesso estratti dalla canna da zucchero.
LE CATEGORIE
LEGATE ALL’INVECCHIAMENTO
Abacado: più comunemente conosciuto sotto il nome di “blanco” o “joven”, questo mezcal è incolore e proviene direttamente dall’alambicco.
Reposado & Madurato: mezcal invecchiato da 2 a 11 mesi in fusti di rovere o in grosse botti.
Añejo: lasciato invecchiare almeno 12 mesi in fusti di rovere di 200 litri al massimo, questo mezcal tuttavia può attendere diversi anni prima di essere messo in bottiglia.
ALTRE CATEGORIE
Minero: questa categoria storica era stata creata per gli impiegati delle miniere d’oro e d’argento del periodo coloniale. Il mezcal Minero era allora più caro e considerato il migliore. La sua produzione non dipendendo da una varietà di agave particolare, era più spesso originata da una tripla distillazione. All’epoca soltanto un minatore poteva permettersi questo alcool.
Pechuga: messo a macerare in una cuve con della frutta (mele e prugne), il mezcal subisce in seguito una terza distillazione. Punto particolare: un petto di pollo o di tacchino è sospeso sopra la cuve o all’interno dell’alambicco, per estrarre la dominante fruttata.
Crema di Mezcal: recentemente autorizzata dalla legge, la Crema di Mezcal non è necessariamente prodotta a partire dal latte o dalla panna, come il suo nome potrebbe lasciar supporre. La sua particolarità? La sua composizione a base di frutta, di frutta secca e di spezie lo accomuna maggiormente ai liquori.
Gusanito: o “piccolo bruco”. Nella produzione tradizionale del mezcal, questo insetto, che può devastare interi campi, è messo a macerare sul fondo di una bottiglia. Il bruco rosso divora il cuore della pigna , mentre il bruco bianco preferisce le sue foglie.
Il mezcal sta al Messico come i malt d’Islay stanno alla Scozia: l’espressione di un territorio e di un modo di produrre ben specifico. Tutti e due offrono così un carattere naturalmente affumicato, che li accomuna in materia di degustazione. Una degustazione che, per quanto concerne il mezcal, tende peraltro a democratizzarsi, grazie all’ispirazione e al talento creativo di numerosi mixologist.
DEGUSTANDOLO LISCIO
In ragione delle differenti varietà di agave utilizzate e di un sistema di produzione ancora largamente tradizionale, i mezcal offrono un ventaglio di aromi e di sapori prodigioso. Al di là del carattere unico di ogni mezcal, l’invecchiamento in fusti di rovere è giunto ad elargire e ad arricchire la tavolozza aromatica di questa acquavite.
Che sia “blanco” oppure “añejo”, un mezcal si assapora puro, a temperatura ambiente per le versioni invecchiate, o leggermente fresco per le versioni “blanco”. Il CRT ha sviluppato un bicchiere “tulipano” adatto alla degustazione di tequila e di mezcal, ma i bicchieri di tipo INAO restano appropriati.