• Curiosità dal Mondo del Bere

    Cosa è il Navy Strength Gin e come nasce questa dicitura?


    La storia del Gin Navy Strength è solo un altro capitolo dell’affascinante e della storia spinosa del Gin stesso. Possiamo ringraziare la marina britannica, non solo per il Gin Navy strength, ma per il Gin come lo conosciamo oggi.

    Non c’è dubbio che la Royal British Navy abbia svolto un ruolo chiave sia nella produzione, nel consumo e nella prevalenza del Gin. L’uso di spezie esotiche nel Gin è stato reso possibile dalle importazioni dall’Africa e dall’Asia. La prevalenza di Gin in tutto il mondo è dovuta ai marinai che mettono piede in nuove città e in nuovi continenti.

    Abbiamo tutti sentito parlare delle razioni di rum nella marina. Sconosciuto a molte persone è il fatto che, mentre gli uomini arruolati sopravvivevano con il rum, gli ufficiali della Royal Navy bevevano Gin.

    La pratica di emettere razioni di alcol nella marina è iniziata nel 16 ° secolo. È iniziato con la birra, e talvolta con il vino e si è concluso con rum e Gin. La pratica di emettere razioni alcoliche fu abolita nella Royal Navy nel 1970. Tuttavia, la Royal New Zealand Navy ha abolito la pratica fino al 1990.

    Cos’è il Gin Navy Strength?

    Tecnicamente, tutto il Gin con più del 57,15% di alcol è un Gin Navy Strength. La ragione dell’alto contenuto alcolico risulta essere molto pratica.

    Sia il Gin che il rum erano conservati in botti di legno insieme alla polvere da sparo sottocoperta. Nel caso in cui i barili di Gin o rum iniziassero a fuoriuscire e immergersi nella polvere da sparo, il contenuto alcolico doveva essere almeno del 57,15%. Qualsiasi cosa al di sotto di questo e la polvere da sparo non brucerebbe.

    Alcol proof

    Il termine “proof” deriva dal test di “prova” della Royal Navy britannica. Ciò comportava versare lo spirito sulla polvere da sparo. Se la polvere bruciava dopo essere stata immersa, indicava che c’era un contenuto alcolico sufficiente – o che il Gin era “a prova di polvere da sparo” – e il gin era ammesso a bordo.

    Ciò significa che nel Regno Unito, uno spirito con il 57,15% è a prova di 100 gradi. Uno spirito con il 40% è a prova di 70 gradi.

    Per rendere le cose più complicate, la definizione americana di “prova” è molto diversa. La prova dell’alcol negli Stati Uniti è definita come il doppio della percentuale di alcol in volume. Di conseguenza, il gin a prova di 100 gradi contiene il 50% di alcol.

    Le caratteristiche di un Gin Navy Strength

    Tutti i Gin vengono diluiti con acqua per raggiungere il livello desiderato di ABV (Alcohol By Volume).

    Poiché il Gin è fatto aggiungendo ginepro, erbe, frutta e spezie allo spirito, ciò significa che il Gin Navy Strength non solo ha più alcol ma anche più del gusto originale.

    Tuttavia, a causa del modo in cui l’alcol influenza il gusto, non puoi presumere che un Gin Navy Strength sia solo un gin con più dello stesso gusto rispetto alla sua versione diluita, devi assaggiarlo per determinare se ti piace, proprio come qualsiasi altro Gin.

    Come usare un Gin Navy Strength

    La maggior parte dei Gin Navy Strength può essere utilizzata sia in un Gin & Tonic, sia in un Dry Martini.

    Il contenuto alcolico più elevato renderà più forte il Martini secco.

    In un Gin & Tonic, l’alcol è più mascherato, ma dovresti essere pronto a usare un po ‘più di tonica di quello che useresti con un Gin standard.

    Inizia usando la stessa quantità di tonica che faresti normalmente.

    Basandosi su questa storia, il termine “Navy Strength Gin” è nato negli anni ‘90 come strategia pubblicitaria per la vendita dei distillati ad alta gradazione. La possibilità di utilizzare questa dicitura sulle bottiglie di gin è stata poi regolamentata vietandone l’utilizzo sui gin al di sotto del 57,1% vol.


  • Curiosità dal Mondo del Bere

    Sicurezza Alimentare, il Ghiaccio non e da meno, rischi e pericoli di contaminazione


    Che differenza c’è fra ghiaccio alimentare e non alimentare ?

    Come avvengono le contaminazioni ?

    È vero che il ghiaccio uccide tutti gli agenti patogeni ?


    Anche un cocktail on the rocks può diventare indigesto se il ghiaccio utilizzato non è sano perché contaminato o perché non alimentare.

    Il ghiaccio alimentare è quello preparato con acqua destinata al consumo umano, che è quell’acqua, ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 31/2001 in recepimento della direttiva comunitaria 98/83/CE, che, oltre a essere salubre e pulita, non deve contenere “microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un pericolo per la salute umana”. Il ghiaccio preparato con quest’acqua e giudicata potabile dall’ufficio sanitario, alla fusione, spiega l’ Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare, deve ridursi in acqua altrettanto potabile, diversamente si parlerà di ghiaccio non alimentare o non commestibile.


    Uso illecito del ghiaccio non alimentare

    Emerge in questo contesto un dato che fotografa una realtà con bar, discoteche, ristoranti, alimentari e operatori del settore turistico-ricettivo che nel 90% dei casi producono ghiaccio non alimentare: “L’uso lecito di tale ghiaccio” spiega l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare “è consentito solo se esso viene utilizzato per raffreddare cibi o bevande, ma senza che questo venga mai a contatto diretto con gli stessi. È infatti del tutto vietato e dunque illecito, proprio perchè potenzialmente pericoloso per la salute, l’utilizzo di tale ghiaccio non alimentare attraverso il contatto diretto di alimenti per la sua conservazione (ad es. per il pesce) o per la preparazione di bevande alcoliche o analcoliche. Spesso si sottovaluta che nelle bevande il ghiaccio viene direttamente ingerito e, nel caso in cui trattasi di ghiaccio non commestibile-non alimentare, tutti i rischi collegati alla sua impurità vengono trasferiti direttamente nel fruitore finale”.

    In linea di massima, secondo l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare, non si tratterebbe di “circostanze fraudolente” quanto di una cattiva conoscenza del mondo del ghiaccio: “Ad esempio non basta semplicemente considerare la potabilità dell’acqua in ingresso nel macchinario per la produzione del ghiaccio: dalle analisi prodotte si riscontra che, sebbene l’acqua in entrata sia potabile, il ghiaccio una volta fuso e ritornato in forma liquida, non è più potabile divenendo di fatto illegale e non salubre. Ciò è certamente dovuto ad una errata manutenzione del macchinario che non viene sottoposto alle procedure conformi, come pulizia, manutenzione generica, sostituzione dei filtri e più in generale la corretta applicazione del manuale HACCP e della prassi di conservazione e somministrazione degli alimenti”.


    Contaminazioni 

    Ai primi di settembre il Ministero della Salute ha, ad esempio, richiamato per la seconda volta in un anno un lotto di ghiaccio a cubetti, prodotto da una ditta italiana specializzata in ghiaccio alimentare a cubetti e tritato, a causa della forte presenza di Escherichia coli, un microrganismo dei coliformi fecali di cui si conoscono ceppi patogeni per l’uomo.

    Contro le contaminazioni è, inoltre, fondamentale movimentare il ghiaccio seguendo alcune regole: “Il ghiaccio” spiega l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare nel suo Manuale di corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare “deve sempre essere movimentato utilizzando attrezzi dedicati (palette, cucchiai, pinze in materiali idonei al contatto con gli alimenti) e sottoposti a lavaggi al fine di evitare contaminazioni crociate con altri alimenti contenenti allergeni e/o sviluppi microbici. Il ghiaccio caduto sul pavimento o su superfici non pulite deve essere prontamente eliminato. Durante l’utilizzo gli operatori devono sempre rispettare le corrette prassi igieniche per la manipolazione degli alimenti (igiene delle mani, igiene del vestiario, ecc.) al fine di evitare contaminazione microbiologiche e particellari”.


    Pericoli per il ghiaccio

    I pericoli per il ghiaccio alimentare sono di tipo fisico, chimico e biologico. I primi, spiega il manuale, sono rappresentati da corpi estranei che, dopo aver attraversato l’apparato gastrointestinale, vengono espulsi generalmente senza danni, anche se può capitare che possano causare soffocamento, tagli e rottura dei denti se bloccati nella o espulsi dalla cavità orale o, ancora, malessere generalizzato, vomito, “sensazione di disgusto e stato di apprensione a causa della sola rilevazione nell’alimento, senza alcuna ingestione, da parte consumatore”, portando in taluni casi a interventi endoscopici per la loro estrazione o a perforazioni qualora entrino nell’apparato digerente.

    I pericoli chimici sono collegati alle acque utilizzate e ai materiali di imballaggio a diretto contatto con il ghiaccio confezionato. I pericoli biologici, infine, riguardano la contaminazione da microrganismi come batteri, funghi, lieviti, virus e protozoi e da infestanti come insetti volanti e striscianti, roditori, ragni e volatili.


    Tipologie di ghiaccio

    A seconda del suo utilizzo il ghiaccio viene prodotto a cubetti pieni o cavi, tritato, a scaglie e a lastre. I cubetti, spiega il manuale, vengono generalmente utilizzati per refrigerare le bevande in bottiglia o per “inserimento diretto in bevande di varia tipologia” e destinati, quindi, al settore della ristorazione, alberghiero, dei bar e dell’intrattenimento – club e discoteche – oltre che agli eventi organizzati.

    Giaccio nei Cocktail

    Il ghiaccio a scaglie viene, invece, utilizzato per la refrigerazione degli alimenti, delle bevande in bottiglia e del pesce – questa tipologia di ghiaccio è, infatti, largamento impiegata nel settore ittico. Il ghiaccio granulare, infine, è utilizzato per la refrigerazione del pesce, la preparazione di cocktail, l’esposizione di alimenti per la vendita e il consumo, il raffreddamento in alcuni processi industriali produttivi (carni e panificazione).

    Usato come refrigerante il ghiaccio è a contatto diretto con gli alimenti che vengono refrigerati e mantenuti a temperatura del ghiaccio fondente. “Le acque di fusione” spiega il manuale “hanno un effetto di lavaggio dei prodotti ma persistono nel prodotto finito, anche se in quantità minime, fino al momento della vendita/trasformazione. Eventuali contaminanti sono pertanto, almeno parzialmente, portati nell’alimento o possono in questo svilupparsi (batteri). L’esempio è rappresentato dall’utilizzo del ghiaccio nel settore ittico. I prodotti così refrigerati sono in genere sottoposti a cottura prima del consumo”.

    Il ghiaccio può essere, quindi, utilizzato come ingrediente e refrigerante. In questo caso viene posto direttamene nell’alimento in fase di lavorazione o somministrazione, diventandone un ingrediente: “Eventuali contaminanti presenti nel ghiaccio” spiega il manuale “sono pertanto portati nell’alimento. Gli esempi sono: ghiaccio utilizzato nei cocktail o inseriti nelle bevande nel momento della somministrazione e il ghiaccio utilizzato in alcuni processi industriali, ad esempio nelle carni. Nel caso di cocktail e bevande il ghiaccio viene, in parte o totalmente, ingerito dal consumatore senza alcun ulteriore trattamento al prodotto stesso”.


    Tipologie di contatto

    Contatto indiretto si ha quando il ghiaccio è utilizzato come refrigerante per alimenti contenuti in confezioni sigillate o non sigillate, ma in questo caso non si pensa a un contatto con gli alimenti, così il manuale, che spiega: “Eventuali contaminanti del ghiaccio non dovrebbero raggiungere gli alimenti, se non in caso fortuito/accidentale (ad esempio durante la movimentazione o tramite la formazione di gocce nella parte esteriore delle confezioni). Gli esempi sono: bottiglie sigillate immerse in ghiaccio per la refrigerazione e vendita, bottiglie lasciate nel ghiaccio dopo apertura come nel caso del vino e piatti composti e pronti posti al di sopra di ghiaccio per l’esposizione alla vendita e consumo”.


    Miti e fake news sul ghiaccio

    Sull’universo ghiaccio persistono fake news e falsi miti. Li ha riuniti, fornendo l’esatta risposta, l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare.

    Il processo di congelamento distrugge tutti gli agenti patogeni

    FALSO. Batteri e virus possono sopravvivere nel ghiaccio ed in alcuni casi possono addirittura moltiplicarsi.

    Se sono presenti degli agenti patogeni nel ghiaccio questi vengono uccisi quando il ghiaccio è aggiunto a bevande con forti contenuti di alcool

    FALSO. Uno studio fatto dall’Università del Texas ha dimostrato che Salmonella, E. Coli e Shigella sono sopravvissuti in bevande con cola, scotch, acqua e l’85% di tequila.

    Il ghiaccio è solo acqua congelata

    FALSO. C’è molta differenza nella qualità sanitaria del ghiaccio a seconda del produttore. Il ghiaccio è acqua congelata, ma il processo di congelamento non distrugge gli agenti patogeni che possono essere presenti nell’acqua che viene utilizzata per la produzione di ghiaccio. Inoltre altri agenti patogeni si possono aggiungere nel processo di produzione del ghiaccio quando le superfici ed i filtri della macchina del ghiaccio non vengono puliti e manutenuti con diligenza e con la necessaria frequenza. Inoltre il ghiaccio può venire a contatto con altri agenti contaminanti se i contenitori dove sono stoccati i cubetti non sono adeguatamente puliti e protetti da agenti infettanti. È sempre bene ricordare che il ghiaccio va a contatto con altri alimenti e diventa parte di essi (come per es. il ghiaccio nelle bevande).

    Tutto il ghiaccio confezionato è sicuro e non viene toccato da mani umane

    FALSO. Ogni anno in Italia milioni di kg di ghiaccio vengono confezionati in siti non adeguati e con processi non controllati. Spesso il processo di confezionamento avviene manualmente ed è possibile il contatto del ghiaccio con le mani dell’operatore ed altre sorgenti di contaminazione.

    Il ghiaccio è regolato come tutti gli altri cibi

    FALSO. Sfortunatamente non è ancora così. Sebbene il ghiaccio sia considerato un alimento a tutti gli effetti non è ancora regolato da un manuale di corretta prassi operativa e non è inserito nei manuali di HACCP dei locali in cui viene prodotto ed utilizzato. Solo recentemente in Italia si è preso atto di questa grave lacuna nel sistema di sicurezza alimentare ed è questo l’obiettivo che si propone il manuale di corretta prassi operativa per i produttori di ghiaccio, sia per il consumo locale, che per la vendita.

    Abbiamo parlato di:

    Decreto legislativo 31/2001 Documento

    Direttiva 98/83/CE Documento

    Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare Website

    Ministero della Salute Website | Twitter | Facebook | YouTube

    Manuale di corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare Documento

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    ECCO COME LA MODA DEL GIN HA QUASI DISTRUTTO LA LONDRA DEL XVIII SECOLO

    Londra, 1730: circa 7000 negozi di gin stavano trasformando i londinesi in alcolisti degenerati, i cui atti di violenza e devastazione sociale sono paragonabili a quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni ’80.

    La Londra a cavallo fra il 1700 e il 1800 è stata protagonista di una storia d’amore sconvolgente e devastante con il gin, conosciuto popolarmente come “la rovina della madre”. La situazione era talmente grave da poter tranquillamente affermare Londra stesse letteralmente affogando nel gin.

    Si calcola che circa 7000 negozi di gin (e probabilmente molti di più, se solo fossimo in grado di contare quelli illegali), appagassero il commercio di questa bevanda nel solo 1730. Parliamo di più di 37854117 litri di gin distillati ogni anno. Volendo fare un paragone, i resoconti sugli episodi di violenza, dipendenza diffusa e più in generale devastazione sociale possono ricordare quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni Ottanta.

    Per i londinesi appartenenti alla classe operaia, il gin era diventato ben più di una sola bevanda. Il gin placava gli spasmi della fame, offriva sollievo dal freddo perenne presente in città, ed era considerato una sorta di fuga dalla dura routine lavorativa nelle fabbriche e nei bassifondi. Si trattava di una “botta di vita” economica e facilmente reperibile a ogni angolo squallido della strada o fra gli antri di una qualsiasi cantina sordida della città. E così, nel giro di poco tempo, il gin ha portato scompiglio per tutto il centro di Londra.

    Thomas Fielding, uno studioso della storia sociale dell’epoca, così scrisse della situazione creatasi a Londra per colpa del gin nei confronti di quelle da lui definite come “persone inferiori”, in un pamphlet del 1751 dal titolo Indagine sulle cause dell’aumento dei rapinatori:

    “Un nuovo tipo di ebbrezza, sconosciuto ai nostri predecessori, si sta espandendo a macchia d’olio fra di noi e, qualora non riuscissimo a fermarlo, in procinto di distruggere buona fetta delle persone inferiori. Sto parlando dello stato di ubriachezza provocato da quel veleno chiamo Gin, altresì noto come la principale forma di sostentamento (se così si può dire), di più di centinaia di migliaia di persone abitanti in questa metropoli.”

    Ma perché il gin? Perché è stato proprio questo particolare alcolico e non, per esempio, il brandy e il whisky, a causare una simile devastazione?

    Quindi ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.

    Il brandy, che prima dei lunghi anni di conflitti fra la Francia e la Gran Bretagna riversava copioso nei calici della città, divenne con lo scoppiare della guerra improvvisamente fuori moda, se non addirittura considerato antipatriottico. Come se non bastasse, per rompere il monopolio francese sul mercato degli alcolici era intervenuto anche il Parlamento con una serie di atti legislativi volti a favorire la produzione di spiriti in casa.


    A favorire il clima di espansione degli alcolici ci pensò l’economia che, durante gli stessi anni, portò i prezzi del cibo ad abbassarsi notevolmente, permettendo quindi alla classe operaia di spendere le rimanenze degli stipendi proprio in alcol.

    Sebbene il gin sia ormai avvolto da un’aurea sofisticata e urbana durante tutto il Ventesimo secolo, riportando alla mente di molti le immagini nostalgiche di Humphrey Bogard in Casablanca, o anche di Ian Flaming appoggiato al bancone di qualche bar a sorseggiare martini, durante il Diciottesimo secolo la sua fama non avrebbe potuto essere più diversa.

    I racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca.

    Importato dall’Olanda negli ultimi anni del Diciassettesimo secolo, il jenever olandese era originariamente un tipo di spirito molto meno forte del gin che conosciamo (conteneva circa una percentuale alcolica del 30%). Il gin poi distillato a Londra era però diabolicamente più forte e, come se non bastasse, spesso adulterato con sostante pessime. Quindi, ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.

    La trementina e l’acido solforico erano sovente parte di questo brodo, così come nel moonshine americano e nel poteen irlandese, e i racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca. Una delle segnaletiche più note presenti sopra alle cantine in cui si serviva gin, avvertiva i consumatori che per un penny si sarebbero ubriacati mentre per due sarebbero diventati talmente ubriachi fradici da svenire su un letto di paglia (questo avrebbero però potuto farlo gratis).

    Ci fu però un tragico evento che, come spesso succede, catturò tutta l’opinione pubblica dell’epoca sollevando un grido di protesta talmente alto da dare il via alla fine della moda del gin. Nel 1734 una donna di nome Judith Dufour strangolò il figlio di soli due anni per poterne vedere i vestiti in cambio di un po’ di gin. La copertura mediatica dell’accaduto face in modo che il Parlamento (che dal commercio di gin intascava copiose tasse) agisse legislativamente. Nel giro di soli venti anni, il Parlamento inglese riuscì a far passare tutta una serie di emendamenti che rallentarono la sete (apparentemente inesauribile) di gin della città.

    Fra tutti, il Gin Act del 1751 si distinse per importanza. L’emendamento proibiva ai distillatori di vendere il gin a commercianti non autorizzati e, allo stesso tempo, aumentava le commissioni a quelli più piccoli. Tale decisione portò i piccoli negozianti a non riuscire più a vendere gin, e quelli più grandi a venire stretti da una morsa di continui controlli di qualità, che però garantivano una vendita d’eccellenza.

    Lo storico GM Trevelyan così descrisse l’emendamento del periodo nel terzo volume del suo Storia sociale illustrata:

    “Il Gin Act del 1751 non ha davvero diminuito il consumo eccessivo di alcol. Tuttavia, ha comunque marcato un punto di svolta importante nella storia sociale di Londra, i cui abitanti valutarono positivamente i suoi risvolti, persino dopo che alcuni dottori dell’epoca attribuirono comunque un ottavo delle morti totali di Londra proprio al consumo di gin. Il peggio era, infatti, passato, e ben presto arrivò comunque il tè a primeggiare sull’alcol.”

    una volta passato l’atto, la moda del gin fu immortalata per sempre nella famosa opera Gin Lane di Hogarth.

    L’artista si ritrovò a ritrarre una Londra dei bassifondi devastata dall’alcolismo. Gin Lane, in tutta la sua veridicità sconvolgente, mostrava un quadro generale di deprivazione. Raccontava di bambini intenti a camminare su di una ringhiera mentre le madri rimanevano sedute inibite dai fumi dell’alcol, di mendicanti impegnati a litigare con dei cani per dei pezzi di ossa, di risse scoppiate per la strada con tanto di corpi privi di vita derubati dei propri averi, di prestatori su pegno arricchiti a spese di chi, per un po’ di gin, era disposto a vendere i propri beni più cari.

    La stampa era accompagnata da questo verso di James Townley: “Gin, maledetto demonio, pieno di furia: rendi la razza umana una preda, assoggettandola a un richiamo mortale, privandola della sua vita.”

    Gin Lane era inoltre anche seguita da un’altra stampa sempre di Hogarth intitolata Street Beer, che esaltava invece le virtù spensierate fuoriuscite dalle botti schiumose di birra. Street Beer raffigurava il fulcro di un’industria focalizzata su “il bel prodotto della nostra isola… il cui succo aromatico viene da noi tracannato con gioia lasciando solo l’acqua ai francesi.”

    Tuttavia, sebbene il gin a buon mercato sia stato disprezzato per un po’ di tempo, negli ultimi anni il susseguirsi di alcune vicende ne ha mutato la percezione. Una piccola selezione di distillerie ha aperto le proprie attività a Londra, vincendo riconoscimenti vari per le proprie distillazioni botaniche. La Sipsmiths, per esempio, ha vinto premi per il suo London Dry Gin, mentre la East London Liquor Company delizia i suoi clienti con vecchi metodi di distillazione (tutti di qualità eccelsa), che includono gin messo in infusione con buccia di pompelmo, cardamomo, bacche e altre erbe botaniche.

    Ora è sicuramente tutto più rispettoso e sofisticato, ben lontano dai tempi in cui la gente di azzuffava fuori dai locali per una pinta di gin, però è comunque meglio non definirla “moda”.

  • Curiosità dal Mondo del Bere

    IL PROIBIZIONISMO ANNI ’20 – AMERICA GOES DRY

    IL PROIBIZIONISMO: LE ORIGINI NEL 1800


    La storia del proibizionismo inizia con la storia stessa degli Stati Uniti come nazione indipendente. Nel primo decennio del 1800 ci fu il proliferare delle cosiddette “Società per la Sobrietà” ossia gruppi religiosi e politici che riuscirono a influenzare la politica di Washington con toni moralistici e fondamentalisti circa l’esigenza di un ritorno a una “società sobria”. L’obiettivo era combattere criminalità, violenza domestica ed impurità. Il problema del consumo di alcol era fortemente sostenuto dalle donne, in origine principalmente religiose appartenenti alla classa media. 

    Nella metà del 1800 furono approvate le prime leggi (ad esempio la “Maine Law” del 1851) che vietavano produzione e vendita di ogni bevanda alcolica, esigendo al contempo maggiore castità di costumi e sobrietà: fu il primo esempio di quello che poi successivamente venne chiamato proibizionismo.

    Woman’s Christian Temperance Union
    (“Le labbra che toccano un alcolico non toccheranno mai le nostre”)

    Il proibizionismo si associò presto al nativismo: da un lato i “drys” (gli asciutti), cittadini rispettosi, i “veri” americani delle campagne, bianchi, protestanti e appartenenti alla classe media. Dall’altro i “wets” (gli umidi), le élite delle grandi città costiere e le masse dei nuovi arrivati dall’Europa, stranieri poveri, sporchi e rissosi, dediti all’ubriachezza molesta e al crimine e spesso cattolici. Tra le organizzazioni che sostenevano il proibizionismo c’era anche il Ku Klux Klan.

    IL PROIBIZIONISMO DIVENTA LEGGE PER TUTTI GLI STATI UNITI D’AMERICA

    Il periodo comunemente conosciuto come “Il Proibizionismo”, che va dal 1919 al 1933, è quindi la punta dell’iceberg di un atteggiamento che aveva preso piede in tempi piú remoti e che era esploso con il divieto assoluto di produzione, importazione, trasporto e vendita di alcolici. Il divieto fu fissato con l’entrata in vigore del 18° emendamento della Costituzione (28 ottobre 1919) e con l’approvazione del Volstead Act, legge entrata in vigore il 16 gennaio 1920.  La sera del 15 gennaio, in tutti gli Stati Uniti decine di migliaia di persone si riversarono nei negozi per fare rifornimento delle ultime bottiglie legalmente in vendita. A Chicago, è famosa la vicenda di una banda armata che assaltò un treno e rapinò un carico di whiskey del valore di 100.00 dollari.

    “Last Call Day Before Prohibitionism”, 15 gennaio 1920

    IL PROIBIZIONISMO: IL CONTRABBANDO E I BATHTUB SPIRITS

    Con l’entrata in vigore delle nuova legge, l’alcol iniziò ad essere importato di contrabbando dai paesi in cui era ancora legale; nacquero anche laboratori clandestini dove si realizzavano birra o surrogati del whiskey e di altri superalcolici. La qualità era spesso scadente e gli alcolici erano adulterati con coloranti e sostanze tossiche, i cosiddetti “Bathtub Spirits”. Al fine di renderli migliori al gusto, gli alcolici venivano mischiati anche con altre bevande quali ad esempio coca cola, ginger ale, limone e succhi di frutta. Questi cocktails venivano largamente consumati negli speakeasy, night club clandestini sorti per aggirare il divieto imposto dalla nuova legge.

    IL PROIBIZIONISMO: LA NASCITA DEL GANGSTERISMO

    Se l’obiettivo del proibizionismo, chiamato anche “the noble experiment”, era quello di moralizzare la società statunitense, di fatto offrì lo spazio per la crescita del mercato nero e del contrabbando di alcolici, con la conseguente espansione della criminalità e della corruzione. Esplode in quegli anni il  fenomeno del gangsterismo: sicuramente tutti hanno sentito nominare Al Capone, il più importante boss del traffico di alcolici dell’epoca. 

    I valori ed i costumi sociali abbracciati per un secolo furono presto cancellati ed il concetto di moralità cambiò. Mentre i criminali divennero celebrità, le autorità divennero impotenti: i consumatori di alcol aumentarono tra i giovani e le donne, le gonne si accorciarono e la musica si scaldò. Dilagò la smania di divertimento e il business dell’intrattenimento si sviluppò considerevolmente.

    IL PROIBIZIONISMO: L’INEFFICIENZA 

    I ricchi, compresi i “drys”, consumavano alcol dalle loro personali riserve o importandolo di contrabbando, mentre i poveri si arrangiavano con prodotti artigianali spesso tossici, possibili cause di avvelenamento o di danni permanenti.  Inoltre, il costo dell’alcol era alle stelle, le violenze domestiche continuavano a perpetrarsi e i lavoratori già scarsamente produttivi peggiorarono la loro situazione.

    L’inefficienza di proibizione fu presto avvertita dalla classe politica e da alcuni esponenti delle Società per la Sobrietà.

    IL PROIBIZIONISMO: LA FINE

    Sará il Presidente Roosevelt a decretare la fine del Proibizionismo con la ratifica del 21° emendamento del 5 dicembre del 1933, grazie all’appoggio di Pauline Morton Sabin, fondatrice della Women Organization for National Prohibition Reform (WONPR). I drys definirono la WONPR “un piccolo gruppo di donne amanti del vino che non si sentivano a proprio agio sotto il proibizionismo”; al contrario, nata nel 1929, l’organizzazione contava un milione e mezzo di adesioni giá nel 1933. E’ significativo che furono proprio le donne, inizialmente le piú forti sostenitrici del proibizionismo, a giocare il ruolo fondamentale per porre fine all’epoca dell’America goes dry.

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