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QUALI SONO LE ORIGINI DELLO SHAKER ?
Nel 1848, George Foster, un reporter nel New York Tribune che trascorreva le notti nei quartieri più squallidi della città alla ricerca di buone storie, rimase meravigliato dal modo in cui un barista stava facendo un drink: “Con le maniche della camicia arrotolate, e il suo viso avvolto in un bagliore di fuoco, sembrava stesse tirando fuori lunghi nastri di Julep da una tazza di metallo.”
Parisienne Questa è forse stata la prima descrizione nota di uno shaker. A quel tempo, le bevande venivano mescolate con cucchiai a manico lungo oppure gettati avanti e indietro tra due bicchieri di vetro, che sicuramente rendevano spettacolo ma non facevano un’ottima miscelazione (per non parlare della confusione). Alla fine, dice David Wondrich, uno storico dei cocktail tra i cui libri ricordiamo “Imbibe!” e “Punch”, qualcuno “arrivò con la brillante idea di attaccare una tazza di metallo sopra un bicchiere che scuotendo con il ghiaccio si sigilla. Dal 1850 iniziarono a costruire shaker personalizzati interamente fatti in metallo, lega, ottone e argento placcato.”
Lo Shaker Parisienne, che era popolare in Europa, era un elegante variante a forma di urna. Era composto da due pezzi senza uno colino e arrivò sulle scene dei bar circa 20 anni più tardi. “Gli europei vedendo quello che stavamo facendo” dice Wondrich, ” pensarono che era davvero fantastico. Tutti impazzirono per i drink americani e iniziarono ad importare gli strumenti.”
Nel corso del 1870 gli inventori cercarono in ogni modo di migliorare il disegno di base. Uno aveva un sistema a stantuffo per la miscelazioni di sei bicchieri in una sola volta; un altro aveva prese d’aria. Ma nessuno di questi ebbe successo. Poi nel 1884, Edward Hauck di Brooklyn brevettò lo Shaker di metallo in tre parti con filtro incorporato, una configurazione che è rimasta sostanzialmente immutata fino a i nostri giorni. Divenne famoso come Cobbler Shaker (lo Sherry Cobbler, fatto di Sherry, zucchero, ghiaccio e arancia o limone, fu uno dei cocktail più popolari dell’epoca).
Quando l’acciaio inossidabile fu inventato nei primi anni del XX secolo, divenne rapidamente il materiale di scelta per gli Shakers, un onore di cui continua a godere ancora oggi.
Anche se gli Shaker rimangono una parte fondamentale del corredo del Barman, c’è il rischio di abuso nel suo uso. I Martini devono essere mescolati (nonostante James Bond), come dovrebbe accadere per gli Old Fashioned e Manhattan. Quando si tratta di aggiunte più recenti alla lista dei cocktail, è difficile anche per un esperto categorizzare. “Le persone stanno shakerando di tutto ai giorni d’oggi” dice Wondrich. “A volte ho guardato, mi sono grattato la testa e sperato in una birra”
by Bartime
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CONOSCIAMO MEGLIO “IL GIN”
1) L’ALCOOL NEUTRO
La maggior parte dei gin è prodotta a partire da un alcool neutro di cereale o di melassa. Nel caso di un alcool di cereale, il mosto è spesso composto da una mescolanza di cereali: mais (75%), orzo (15%), e altri cereali (10%) tra cui la segale.
2) MODI DI PRODUZIONE
“Distilled gin”: questo metodo permette di produrre i gin migliori. La distillazione si effettua in batch all’interno di un alambicco tradizionale. Questo alambicco è scaldato a vapore al centro di una resistenza sistemata sul fondo della caldaia. La caldaia di questo alambicco (il pot) riceve l’alcool neutro, ridotto a circa 45° – 60°. Una volta portato ad ebollizione l’alcool, i vapori che si sviluppano si impregnano degli aromi delle bacche e delle erbe aromatiche. La testa e le code di distillazione, tossiche, sono riciclate, poi ridistillate mentre il cuore è condotto al centro di imbottigliamento, per la diluizione e l’imbottigliamento.
Aromatizzazione per infusione: il principio consiste nel sospendere nell’alambicco, sopra all’alcool, una tasca di cotone contenente tutte le erbe aromatiche, bacche di ginepro e spezie, oppure nel posarli in una “camera perforata” istallata a livello del collo dell’alambicco. Al loro contatto i vapori dell’alcool si infondono, si impregnano delle essenze liberate dalle erbe aromatiche.
Aromatizzazione per macerazione: il principio consiste nel far macerare le bacche di ginepro, le erbe aromatiche e le spezie direttamente in un alcool neutro a 45°, lasciandole inzuppare liberamente nell’alcool oppure disponendole per 24 – 48 ore in sacchetti di cotone. Alcune distillerie filtrano la miscela prima della distillazione, per separare gli aromatizzanti dall’alcool; altre distillano il tutto, producendo un alcool particolarmente carico di aromi.
“Compound gin”: questa tecnica si basa sulla mescolanza di un alcool neutro (di melassa più frequentemente) con un concentrato di aromi di gin (cold compounding), oppure con essenze artificiali di bacche di ginepro, spezie ed erbe aromatiche (compound essence). Questo metodo non comporta alcuna ridistillazione ed è usato soprattutto nella preparazione di gin per il consumo di massa.
3) DILUIZIONE E FRUIZIONE
Una volta distillato, l’alcool è messo a riposare per qualche ora in cuve, poi la sua gradazione alcoolica è via via ridotta per diluizione fino alla gradazione desiderata. La filtrazione può essere effettuata a freddo: dopo averne abbassato la temperatura a -2°, l’alcool viene fatto passare attraverso un filtro di cellulosa, per eliminare tutte le particelle rimaste in sospensione. Si possono usare altre tecniche di filtrazione come quella del carbone attivo: l’alcool si cola allora attraverso uno strato di carbone.
«Gli stili»
Al di là della tecnica di aromatizzazione, per macerazione, distillazione oppure per mescolanza, il gin si trova sotto diverse categorie:
LONDON GIN (London Dry Gin): questa categoria, denominata anche “English style”, simboleggia la quintessenza del gin. Il termine “London” non esprime un’origine, ma uno stile che può essere riprodotto in tutto il mondo. I “London Gin” o “London Dry Gin” sono dei “distilled gin” a cui non può essere aggiunto alcun elemento artificiale (aromi o coloranti) se non dello zucchero e nelle proporzioni ben definite (5 g/ettolitro a 100% alc/vol).
PLYMOUTH GIN: a tutt’oggi è l’unica denominazione d’origine che esista per il gin Dominio riservato del sud dell’Inghilterra, questo gin è prodotto da una sola distilleria situata a Plymouth, Blackfriars Distillery (Coates &Co), che detiene l’unico diritto di uso della denominazione.
OLD TOM GIN: antenato del London Dry Gin, questo gin era molto popolare nel XVIII secolo. Più dolce e leggermente zuccherato, era inoltre carico di aromi per mascherare una base alcoolica più dura e meno pura delle basi attuali. Uno stile in via di estinzione.
«Altri stili»
JENEVER: cugino primo del gin, il jenever è prodotto principalmente in Belgio, in Olanda e in Germania (Dornkaat). E’ elaborato a partire da un alcool risultante dalla distillazione di un mosto di cereali (mescolanza di segale, di grano, di mais e d’orzo),come possono esserlo alcuni whisky. Il Jenever è generalmente distillato in un alambicco pot- still o a ripasso e produce un alcool più robusto del gin. Esistono due tipi di jenever: “jonge” ( giovane) e “oude” ( invecchiato) messo in fusto di rovere da 1 a 3 anni.
SLOE GIN: liquore elaborato a partire da gin infuso con prunelle. Alcune ricette implicano un periodo di invecchiamento in fusti di rovere.
«La degustazione»
L’introduzione del Bombay Sapphire nel 1988 ha permesso di evolvere al gusto odierno tutte le categorie di gin. Il ritorno in auge del gin permette anche di rivisitare tutta una serie di cocktails classici e di attirare una nuova generazione di consumatori. Questi gin dai nuovi sapori allargano un po’ di più la tavolozza aromatica disponibile, perché i mixologists possano esercitare i loro talenti e comporre nuovi cocktails. Alcune marche propongono anche delle versioni invecchiate in legno, allo scopo di fare del gin un prodotto da degustare in purezza.
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I COCKTAILS MONDIALI (definiti dall’Iba dal 1961 al 2020)
E’ il 2 novembre del 1960: i rappresentanti delle nazioni aderenti all’Iba (International Bartenders Association fondata il 24 febbraio 1951 presso il Grand Hotel di Torquay, Inghilterra, presenti 20 importanti barmen in rappresentanza di sette nazioni e che oggi raccoglie 36 associazioni distribuite nei cinque continenti), sono riuniti presso l’Hotel Scribe di Parigi per il tradizionale congresso annuale.
L’agenda degli argomenti da dibattere comprende al sesto punto la voce “discussione della codifica delle bevande”. A prendere la parola è il compianto presidente Aibes (e Iba) Angelo Zola: a fronte del numero sempre crescente di differenti bevande miscelate, egli propone la formazione di un comitato che riduca il vasto numero di cocktail e ricette.
Richiede ad ogni comitato nazionale di inviare le proprie preparazioni più tipiche al fine di stabilire una lista che comprenda tra i 50 e gli 80 cocktail che verranno classificati “approvati dall’Iba”. A un anno di distanza, a Olso; si ha la definizione delle “prime cinquanta ricette di cocktail approvate dalla presidenza dell’Iba”.Con ciò non si è inteso – come potrebbe apparire dalla traduzione letterale degli atti riportati – limitare il numero delle preparazioni miscelate, bensì codificare un ricettario a livello internazionale in grado di definire con precisione i componenti dei drink prescelti più noti e richiesti) e le loro percentuali.
Attraverso la loro diffusione a ogni iscritto alle associazioni dei barmen delle nazioni aderenti all’Iba, per il consumatore sarà possibile richiedere e ottenere, ad esempio, uno Stinger sempre uguale un quanto a componenti, proporzioni, preparazione e servizio. Prendeva così il via la storia dei “50 mondiali”, il vangelo di ogni barman la base da apprendere, ma non solo da memorizzare, bensì studiare a fondo, analizzare poiché attraverso questo sarebbe stato
poi possibile soddisfare al meglio ogni richiesta specifica, ma pure comprendere i parametri per la costruzione di quel patrimonio unico che è il “ricettario” proprio di ogni barman, composto di preparazioni personali e inedite, molte delle quali, grazie alla propria validità, si affermano e acquistano notorietà, una fama che spesso si spinge oltre i confini nazionali.Nel frattempo avviene anche che alcune preparazioni col passare del tempo non incontrino più gusto del consumatore, pertanto vengano sempre meno richieste e cadano nel classico “dimenticatoio”. Oppure, qualche barman non ci crede più, qualche barman a livello internazionale naturalmente.
E’ così succede che nel novembre 1985 ad Amsterdam, nel corso del congresso mondiale dei barmen Iba, viene istituita una commissione cui viene affidato il compito di esaminare la realtà del bere miscelato e apportare le opportune modifiche. Modifice che puntualmente che puntualmente vengono presentate l’anno dopo (sempre in novembre) nella caratteristica località normanna di Deauville: “mondiali” passano da 50 a 73, non solo con numerosi nomi nuovi, ma anche con numerose “uscite” cui si unisce un’appendice: i 25 cocktail vincitori del “Iba’s Word Challenge”, ovvero primi classificati ai campionati mondiali che si svolgono ogni tre anni.E’ facile capire quale sia stato l’impegno per ogni operatore memorizzare e studiare a fondo le nuove ricette e soprattutto le modifiche di quelle rimaste. Lasciando una coda di polemiche discussioni, e in alcuni casi di rifiuta che si è protratta per alcuni anni. E siamo nel novembre del 1993 a Vienna: un’altra commissione che ha lavorato sull’onda delle critiche giunte dai bar di ogni parte del mondo (soprattutto i giovani non sapevano cosa fare: nelle scuole alberghiere gli avevano insegnato i mitici 50 cocktail in un dato modo, ora si trovano a ribaltare dosi e ingredienti) presenta così il nuovo abc del bere miscelato, i cocktail mondiali si riducono a 53 con l’aggiunta di quattro ricette analcoliche (alcune storiche, viene revisionata anche la tipologia e la denominazione di alcuni di questi. Insomma una rivoluzione che ancora oggi è in atto.
D’altra parte dobbiamo attenerci al regolamento anche se non a tutti è gradito: le proporzioni per la quasi totalità dei casi sono rimaste fissate in decimi (lo avevano deciso il 1986), ma per fortuna l’Alexander il Grasshopper e il mitico Negroni hanno riconquistato i “terzi” con il sommo gaudio dei “beventi”. Di conseguenza con il passare degli anni sono nate diverse altre associazioni e Club di Barman, tra cui il C.C.C. (Classic Cocktail Club) di il compianto Fondatore Franco Zingales, grande cultore del mondo del bere ed allora redattore capo di Bargiornale
VARI RICETTARI NEGLI ANNI
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Il cocktail negroni diventa un Film
Questo cocktail è un’autentica leggenda italiana nel mondo, fu inventato intorno agli anni ’20 nella città di Firenze, da suo ideatore il conte Camillo Negroni, la cui storia si riconosce solo e particolarmente per aver dato origine al drink che porta il suo nome. Il conte era un assiduo frequentatore del nobile Caffè Casoni sito in via Tornabuoni a Firenze, locale che poi cambiò in Caffè Giacosa e tra le altre cose poi acquistato da Roberto Cavalli, che comunque ha sempre conservato quell’atmosfera da caffè ottocentesco, quindi elegante e antico come tradizione vuole.
Ebbene il conte Negroni un giorno chiese al barman Angelo Tesauro di cambiare drink, invece del consueto aperitivo americano voleva qualcosa di diverso e nuovo, per cui fu sostituito il seltz con il gin, che ovviamente piacque al Conte e da qui il nome, il primo “Americano alla moda del conte Negroni”, poi diventato il famoso Negroni che conosciamo oggi. Una storia semplice che nasce dall’esigenza di un singolo per poi diventare patrimonio di tutti, è chiaro che questo accade solo quando un’invenzione è funzionale e piace, ed è quel che è successo con il Negroni, cocktail famoso e consumato ovunque nel mondo, che nasce da una storia tutta italiana.
Tre elementi alcolici per un grande cocktail, forse uno dei drink più semplici da preparare almeno in occidente, essendo composto da liquori abbastanza comuni almeno nell’emisfero occidentale, tuttavia sappiamo che il Negroni è ben apprezzato anche in oriente, probabilmente anche per via della sua italianità e origine. Non è un mistero, infatti, che il made in Italy ha vita facile ovunque, questo vale non solo per i prodotti ma anche appunto per simboli come questo, il Negroni è al primo posto tra i cocktail italiani più famosi insieme ovviamente al Bellini e altri.
Dettagli storici del Negroni
In pochi anni il Negroni si affiancò ai grandi cocktail anglosassoni, tanto da diventarne uno dei maggiori competitori nei gusti degli stessi americani, dunque dalla piccola Firenze verso la conquista del mondo, almeno quello di chi ama bere con gusto e classe, che non rinuncia neppure al piacere dell’eleganza, perché, come spesso un vecchio detto ricorda, “la bellezza ha sempre ragione”, ecco, il Negroni è sì bello ma anche e soprattutto buono e piacevole al palato. Un cocktail per molti ma sicuramente non per tutti, il suo gusto e sapore sono unici, particolare al punto che si ama per sempre o mai, ma sono rari i casi in cui non si apprezzi un buon drink come questo.
L’esperienza del conte Negroni dopo vari viaggi in Inghilterra e Stati Uniti, dove aveva avuto il piacere di provare le specialità di alcoliche di queste terre, sentiva appunto l’esigenza di cambiare, di provare gusti e sensazioni nuove, differenti da tutto ciò che aveva provato e conosciuto fino ad allora. La richiesta che Negroni fece al barista, era dettata dalla voglia di rendere più incisivo il grado alcolico del tradizionale americano che spesso consumava, da qui la scelta del cambio seltz – gin, con la quale venne a crearsi un’alchimia che cambiava tutto, diventava qualcosa di nuovo più deciso e forte, il Negroni era nato!
Ricordiamo gli elementi che compongono il cocktail
Il Negroni si compone di tre soli elementi alcolici, che vediamo qui sotto:Gin
Campari
Vermut rosso
Il Gin, Campari e Vermut rosso in parti uguali, 3 cl per comporre un Negroni, le dosi uguali per non far torto a nessuno dei tre, quindi se vogliamo un cocktail “democratico” ed equilibrato, così come lo volle il conte e come viene ancora oggi servito. Anche la preparazione rispecchia la semplicità con la quale è stato ideato; uno dei pochi cocktail che si prepara direttamente nel bicchiere, mettere del ghiaccio in un tumbler basso per raffreddarlo, poi si scola il tutto e s’inizia a versare i tre ingredienti per poi mescolarli. Si completa il tutto con una bella fetta di arancia, ed essendo un drink dal tono amaro, si può consumare anche come tonico contro la calura estiva allungandolo con della soda, ovviamente non è più il classico Negroni ma funge perfettamente come buon refrigeratore contro il caldo. Piccola nota, evitare il ghiaccio triturato poiché sciogliendosi più velocemente rischia di annacquare troppo il drink della versione classica, che invece deve mantenere il suo sapore intenso.
Qualche curiosità sparsa sul Negroni, anche sbagliato
È vero che quando una cosa è ben fatta e piace può non solo avere delle imitazioni, ma produrre delle infinite variabili, una di queste è nota come il “Negroni sbagliato”. In quel di Milano il barman Mirko Stocchetto, fece l’errore di sbagliare bottiglia, invece del gin versò il brut, e così nacque una versione del tutto nuova da un errore fatto in buona fede, qualcosa che neppure il suo inconsapevole inventore poteva immaginare. Nacque così il Negroni Sbagliato, il quale fece subito breccia prima con i milanesi e poi nel resto d’Italia e nel mondo, questo per dire che le cose spesso vanno in un verso inaspettato creando piacevoli novità, di fatto oggi è il secondo Negroni più famoso al mondo.
Resistente nel tempo, il Negroni è passato indenne alla guerra e oggi è più che mai apprezzato nelle più svariate e variopinte versioni, tutte comunque sempre riconducibili all’originale inventata dal conte. Una delle versioni più recenti è stata quella inventata dal barman dell’Hotel Excelsior durante il Giubileo, in onore di un cardinale ospite creò il Negroni del Cardinale, una variante che sostituisce il Martini rosso con il dry, ovviamente fu apprezzato e rimase come variante al classico cocktail. Oltre la versione sbagliata dunque, se ne contano molte altre, tuttavia nessuna si discosta dall’idea iniziale del conte Negroni, che, di fatto, è impossibile da sostituire completamente negli elementi, a patto di cambiare completamente tipologia di cocktail. Secondo alcune statistiche, il Negroni è comunemente bevuto da personalità dello spettacolo in occasioni mondane, infatti, è uno dei cocktail che più spesso è presente in party e cerimonie di alto livello, a dimostrazione che si tratta di un drink la cui eleganza è ancora oggi ben apprezzata nei più diversi ambienti e ceti sociali, tuttavia anche i comuni mortali possono gustare il Negroni, infatti, la sua popolarità non è mai venuta meno a ogni cambio generazionale!
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Da New York a Londra impazza la moda del mocktail: ma cos’è?
In gergo cinematografico il mockumentary è un genere di finzione che ricalca stile e linguaggio del documentario. La parola è la crasi di due termini:I MOCKTAIL SONO MISCELAZIONI ORIGINALI E PRIVE DI ALCOL FRUTTO DELL’ESTRO E DELLA CREATIVITÀ DEL BARTENDER documentary si fonde con mock, ovvero finto e, se usato come verbo, significa prendersi gioco o fare il verso. Lo stesso meccanismo è applicato per la parola mocktail che sta a indicare reinterpretazioni di cocktail classici o miscelazioni originali ma rigorosamente prive di alcol. In ambito alimentare, come è noto, l’attenzione nei confronti di gusti, scelte o esigenze diverse è crescente. È altresì vero che negli ultimi anni, uno dei maggiori trend è stato sicuramente la ri-scoperta della mixology di qualità: drink sempre più equilibrati, pensati da bartender estrosi, che utilizzano succhi, tinture e bitter fatti in casa con distillati di pregio. L’unione di queste due tendenze ha portato all’ampliamento dell’offerta di alternative analcoliche. Finalmente anche gli astemi e coloro che, anche momentaneamente, vogliano o debbano evitare l’alcol, possono bere qualcosa di interessante e testare la bravura di un barman. Non si tratta solo di riproporre cocktail privati della componente alcolica ma di ricorrere alla creatività, per cercare la combinazione giusta di ingredienti naturali, al fine di superare perfino il ricorso a bevande gassate, sciroppi ricchi di zuccheri o succhi di frutta
Insomma sono finiti i tempi dello Shriley Temple, del San Francisco o del Virgin Colada, i mocktail attuali non si accontentano di limitare i danni ma puntano ad essere addirittura salutari, con le varianti detox, energizzanti o dimagranti. La frutta resta certamente protagonista assoluta: agrumi, ananas ma anche mirtilli e melograno, da aggiungere magari a carote, sedano, menta, cetrioli, basilico, semi di chia e mandorle; jolly immancabili sono la curcuma e lo zenzero, le cui proprietà sembrano infinite. Grande popolarità anche per l’acqua di cocco ed il tè verde che spesso rappresentano la base della miscelazione.
Al di là dell’aspetto prettamente salutista, interessante è il punto di vista di chi si trova a fare i conti quando entra in gioco l’abbinamento con il cibo. Si parte inevitabilmente con un vuoto da colmare in termini di acidità, pienezza del corpo e sensazione di calore, soprattutto quando si tratta di tenere testa alla complessità di alcune ricette. E allora le strade sono due: trovare soluzioni con determinati ingredienti capaci di fornire un profilo aromatico e sensazioni boccali tali da sopperire all’assenza di alcol (alghe, peperoncino, erbe aromatiche) oppure ricreare le sensazioni organolettiche di cocktail tradizionali o addirittura di grandi vini, in una bevanda analcolica. Emblematico è il caso del menu Temperance Pairing Program dell’Atera di Manhattan, casa dello chef danese Ronny Emborg. Qui si cerca di unire la tradizione scandinava dell’abbinamento con i succhi – Rene Redzepi docet – all’arte della mixology americana, arrivando a proporre cose come il Nogroni, mocktail che appunto simula il più noto Negroni.
Questa tendenza ha sicuramente il merito di stimolare gli addetti al settore, obbligati, come durante il proibizionismo, a riscoprire certi ingredienti o per lo meno a rivalutarne l’utilizzo. L’effetto domino partito dai banconi dei cocktail bar ha coinvolto inevitabilmente anche le cucine di importanti ristoranti e non soltanto negli Stati Uniti ma anche in Australia e Gran Bretagna.LA MODA DEL MOCKTAIL STA PRENDENDO PIEDE ANCHE IN ITALIA Per capire lo stato delle cose in Italia è utile volgere lo sguardo all’esperienza della Settimana della Sicurezza Stradale del maggio 2015, targata Michelin. Ai 39 chef italiani con due o tre stelle, fu chiesto di approntare un menu dedicato al tema e, ovviamente, la questione della riduzione dell’alcol era assolutamente centrale. L’unico a proporre quello che potremmo definire un mocktail fu Moreno Cedroni con una bevanda energetica a base di lime e zenzero. A Davide Scabin va invece il merito di aver pensato a un intero percorso di abbinamento, con succhi e nettari naturali. Tutti gli altri si sono praticamente limitati a raccomandare di bere con moderazione. Il mercato risponde con entusiamo a questo nuovo trend e, a parte le pubbliche esternazioni di Gualtiero Marchesi, il quale afferma di non toccare alcol da circa 20 anni, anche in privato qualche grande chef ha ammesso di provare un certo piacere nel giocare con le bevande analcoliche. C’è da aspettarsi un’inversione di tendenza?
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La storia del cocktail Boulevardier
Na na na na naaaa La Vie en Rose… Be io decisamente non so il testo e non la so cantare, però il cocktail di cui ti sto per raccontare la storia mi fa tornare nella Belle Epoque in Francia, su un bel viale alberato accompagnato dalla canzone di Édith Piaf “La Vie en Rose”.
Forse hai già capito di che drink sto parlando e spero di immergerti nell’atmosfera assieme a me…
Il cocktail francese si chiama “Boulevardiero” , ed è un classico che risale agli anni 20’ a base di Bourbon, Campari e Vermouth rosso.
Mi sento ispirata a parlare di un cocktail così lontano e così ricco di storia, ho voglia di ballare sulle meravigliose e dolci note della poetessa e cantante Édith Piaf, di cui voglio riportarti un piccolo passo del famoso brano:
Quand il me prend dans ses bras
Il me parle tout bas,
Je vois la vie en rose.
Il me dit des mots d’amour,
Des mots de tous les jours,
Et ca me fait quelque chose.
Quando mi prende fra le braccia
Mi parla sottovoce
Per me la vita è tutta rosa
Mi dice parole d’amore
Parole di tutti i giorni
E questo mi fa effetto
Il Boulevardier è dolce, elegante, aggraziato, che ti scalda, come questa musica… Non trovi sia perfetto?
Il Boulevardier è un cocktail nato in Francia nel 1794 da un’idea che si attribuisce a Dominic Venegas. Tuttavia la creazione vera e propria del drink è per merito dello scrittore americano Erskine Gwynne, fondatore della rivista parigina chiamata appunto Boulevardier (esistente dal 1927 al 1932).
Successivamente il grande barman Harry McElhone nel 1927, unì per la prima volta come sperimento il bourbon whiskey con il Bitter Campari, trovando un equilibrio perfetto che rese questo cocktail intramontabile.
Il nome del cocktail è semplice da ricordare e suona in maniera armoniosa quando lo si pronuncia, il titolo Boulevardier proviene da “boulevard” che significa strada in francese. Questo termine fu coniato durante la Belle Epoque per definire una persona di strada, un passante.
La ricetta? Da costruire in parti uguali con i seguenti ingredienti:
3,0 cl Bourbon Whiskey Wild Turkey
3,0 cl Vermouth Dolce Antica Formula
3,0 cl Campari
Si dice sia il cugino del Negroni, per la sostituzione del gin con il bourbon, mantenendo infatti anche le stesse proporzioni nelle dosi usate.
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LA STORIA DEL COCKTAIL “Negroni”
Pre dinner d’eccellenza, after dinner all’occorrenza, fedele compagno in ogni stato d’umore, dal colore rosso rubino così intrigante, e poi l’intenso profumo di spezie amare e dolci, erbe officinali, bacche di ginepro, agrumi e vaniglia. Un cocktail secco e corposo, amaro nella coda. Nobile, come colui che lo ha creato: è il Negroni.
Un alone di leggende, tanti dati precisi: l’origine del Negroni è piuttosto particolareggiata. Non solo si sa la città – una Firenze vitale ed europea, vivacizzata dal movimento futurista – ma anche il bar dove, per la prima volta, bitter, gin e vermouth si sono sposati in comunione di beni (e parti uguali).
Più che un bar, un negozio d’antan, un po’ drogheria, un po’ profumeria, rivendita di generi vari: il Casoni, poi divenuto Caffè Giacosa, situato a cavallo tra via de’ Tornabuoni e via della Spada.In questo ritrovo di Firenze, in un giorno incerto compreso tra la fine del 1917 e il 1920, probabilmente sul far della sera, nasce il Negroni. A inventarlo, non un barman, ma Camillo Negroni, nobile elegante avventuriero. Con l’aiuto di Fosco Scarselli, giovane barista: due persone di diversa età e differente estrazione sociale, accomunate da un passato avventuroso.
Fosco Scarselli, leva 1898, giovanissimo, è già passato dal fronte della prima guerra mondiale, toccato dalla prigionia, prima di approdare come barman, nel 1917, alle dipendenze di Gaetano Casoni.
Il conte Camillo Negroni, orfano di padre a 10 anni, istruito alla vita militare, a 19 anni, s’imbarca per l’America, dove per due lustri fa il cowboy, conducendo le mandrie dalle squadrate praterie del Wyoming ai mercati canadesi. Col gruzzolo raggranellato, si trasferisce a New York. È il 1898, in piena golden age of cocktails: qui apre una scuola di scherma, si diverte col poker e le scommesse, trova moglie, prima di tornare a Firenze, nel 1912.La storia dice che il Negroni sia figlio diretto dell’Americano, il cocktail che incontra vermouth e Bitter Campari. E che il conte, che sapeva bere e reggeva bene l’alcol, un giorno abbia chiesto di fortificare il drink aggiungendo la potenza del gin. “In realtà l’Americano non era tanto un cocktail, ma un modo di servire il vermouth, all’americana, appunto – spiega Luca Picchi, occhi limpidi, portamento da nobiluomo, uno che ha passato la vita sulle tracce del conte (scrivendoci due libri) e che di Negroni ne ha miscelati parecchi –. Ovvero, mescolandolo con bitter, arzente, o altro spirito. Il Conte in America aveva già visto miscelare bitter e distillati: non gli sarà stato difficile guidare Scarselli nella creazione dell’Americano alla moda del Negroni”.
Ecco così il Negroni: probabilmente servito all’inizio con una spruzzata di seltz (che finiva per abitudine il servizio del vermouth), caratterizzato da una fetta di arancia, al posto dell’allora usuale limone, per renderlo riconoscibile fin dalla vista.
“Dalle mie ricerche – continua Picchi – posso affermare che i primi Negroni si preparavano col Campari, bitter molto diffuso già allora a Firenze e presente in una grossa fetta del territorio nazionale. Sul vermouth utilizzato abbiamo meno certezze, anche se ho ritrovato una bolla di accompagnamento che attesta che la Martini & Rossi serviva il Casoni, in una data vicinissima alla nascita del Negroni. Mentre il Gin più diffuso in Italia era il Gordon’s”. Saranno stati questi i tre ingredienti del primo Negroni? Può darsi. “Ma difficilmente è nato con le attuali proporzioni. Credo che principalmente fosse un vermouth rafforzato con gin e colorato con bitter. Ma il Conte Negroni era uno che amava bere forte, all’americana, e si sarà sistemato il colpo in breve tempo così come oggi è conosciuto”.
Il Negroni non fatica a diventare celebre. In una lettera datata 12 ottobre 1920 Francis Harper, un antiquario londinese amico del conte, scrive una frase divenuta celebre: “you must not take more than 20 Negronis in one day”. Il Negroni è già codificato. “Non tragga in confusione il numero: i 20 Negroni citati non si riferiscono certo alle dosi attuali (circa 12 cl, ossia 4 oz circa), ma erano serviti in piccoli calici da cordiale, da un’oncia”.
Sono poi nate, come per ogni cocktail veramente famoso, diverse varianti: dal Cardinale, creato nel 1950 all’hotel Excelsior di Roma in onore di un cardinale di origini tedesche (il vermouth dry sostituisce il rosso, e fa capolino la scorzetta di limone); al Negroni Sbagliato, inventato per caso nel 1972 da Mirko Stocchetto, titolare del Bar Basso di Milano, scambiando per sbaglio una bottiglia di spumante con quella del gin. E pure James Bond lo beve: nel racconto Risiko (1960), Ian Fleming fa ordinare all’agente segreto un Negroni con il Gordon’s.
Negroni
3 cl Gin
3 cl Bitter Campari
3 cl Vermouth Rosso
splash di soda (opzionale)Si prepara direttamente nel bicchiere old fashioned, riempito con cubetti di ghiaccio, guarnendolo con mezza fetta d’arancia.
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….dalla «Tafia», bevanda dei Pirati, al Rhum
Il rum è la bevanda legata alla conquista del Nuovo Mondo, e questo liquore sarà sempre identificato con la zona Caraibica. L’associazione tra questa bevanda e la pirateria, risiede principalmente nel fatto che il rum era il liquore localmente disponibile negli anni d’oro della pirateria nei Caraibi, ma soprattutto dall’enfasi che a tale connubio venne data in alcuni lavori letterari. L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson fu sicuramente uno dei più celebri romanzi per ragazzi di tutti i tempi. Racconta una storia di pirati e tesori che ha certamente contribuito in modo significativo all’immaginario popolare su di loro.
Il rum è la bevanda legata alla conquista del Nuovo Mondo, si ottiene dalla distillazione di vari elementi della canna da zucchero ma il suo percorso fu a ritroso: la canna da zucchero è infatti originaria di Papua Nuova Guinea ed esportata e coltivata in Africa, India e infine in Spagna. Colombo portò le piante nella sua seconda spedizione del 1493 e da quel momento la canna da zucchero, divenne la coltivazione regina del Nuovo Mondo. Questo liquore sarà sempre identificato con la zona Caraibica. Già nel XVIII secolo più di 40 colonie producevano canna e rum. Il suo antenato era la «Tafia», che gli schiavi spremevano dal «guarapo», cioè il succo colato caldo della canna da zucchero, era aspra e forte ma alleviava le fatiche del lavoro. Piacque molto ai pirati che trasportavano sulle loro navi barili di «Draque», che non era altro che il trisavolo del moderno «Mojito», rum grezzo con foglie di menta, che evoca nella nostra immaginazione locali fumosi, taverne malfamate, ritrovi di pirati e fortissime emozioni. La prima distillazione di rum avvenne a Londra con le canne da zucchero indiane intorno al XV secolo, successivamente venne prodotto nella stessa città, con le canne da zucchero provenienti dalle Americhe. Mentre la prima distillazione di rum nelle Americhe ebbe luogo nelle piantagioni di canna da zucchero dei Caraibi nel XVII secolo. I primi rum caraibici non erano di grande qualità, tanto che un documento dalle Barbados del 1651, affermava che il maggiore intossicante prodotto sull’isola è il «Rumbullion», ottenuto da canne da zucchero distillate, un bollente, infernale, e terribile liquore. Si narra che i pirati trasportassero con sè barili di questo distillato, che rendeva l’equipaggio, poco prima di un assalto, euforico e incosciente. L’associazione tra questa bevanda e la pirateria, risiede principalmente nel fatto che il rum era il liquore localmente disponibile negli anni d’oro della pirateria nei Caraibi, ma soprattutto dall’enfasi che a tale connubio venne data in alcuni lavori letterari tra cui citiamo: «Bucaniers of America» (Bucanieri d’America) di John Esquemeling scritto nel 1684. Anche il poeta inglese George Byron (1788-1824) contribuì notevolmente a creare il mito del pirata romantico, con il suo famoso poema «Il Corsaro» scritto nel 1814. «L’isola del tesoro», di Robert Louis Stevenson (1850-1894), che uscì in forma di libro nel 1883, fu sicuramente uno dei più celebri romanzi per ragazzi di tutti i tempi. Racconta una storia di pirati e tesori che ha certamente contribuito in modo significativo all’immaginario popolare su di loro. Tutti i pirati in fondo, devono qualcosa a Stevenson. La RAI nel 1959, ne fece uno sceneggiato televisivo di successo; e tutti noi con i capelli bianchi ci ricordiamo della famose canzone: «Quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum! Il vino e il diavolo hanno fatto il resto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum!». Ma che ci facevano «quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum?». Milioni di lettori si sono posti la domanda sul significato di quella canzone dei pirati, capeggiati dal cuoco dalla gamba di legno con il pappagallo sulla spalla: Long John Silver. La Royal Geographical Society di Londra pubblicò sul suo periodico «Geographical» una spiegazione del significato della canzone. Stevenson riprodusse fedelmente le parole di una canzone originale, realmente cantata tra i pirati nel 1700, nella quale si fa riferimento a una vicenda accaduta a «Cassa di uomo morto» che non è altro che un pezzetto di terra minuscolo e disabitato tra le Isole Vergini (Caraibi). Secondo una leggenda Edward Teach (1679-1718) meglio noto come «Barbanera», un pirata da manuale, con lo sguardo pazzo e inquisitore, teneva delle micce accese tra i capelli, beveva rum mescolato con polvere da sparo e arrotolava la sua barba nera intorno alle orecchie per rendere il suo aspetto ancora più minaccioso. Il suo regno di terrore durò solo due anni, la Marina inglese riuscì a catturarlo nell’insenatura d’Ocracoke nel 1718. Barbanera punì una parte del suo equipaggio che si era ammutinato, abbandonandolo per quattro settimane sull’impervia isola. A ognuno dei 30 uomini diede un coltello, una bottiglia di rum e niente cibo, sperando così che morissero di fame, o si uccidessero a vicenda. Invece quando tornò dopo un mese trovò che alcuni di essi erano sopravvissuti. Così nacque la canzone. Mentre l’associazione tra il rum e la Marina reale britannica iniziò nel 1655, quando la sua flotta invase l’isola di Giamaica. Con la disponibilità di rum prodotto internamente, gli Inglesi cambiarono la razione quotidiana di liquore destinata ai marinai, e dal brandy francese passarono al rum. Mentre la razione era originariamente pura, o mescolata con succo di limone verso il 1740, con l’intento di ridurre gli effetti dell’alcol sui suoi marinai, l’ammiraglio Edward Vernon (1684-1757) ordinò che la razione di rum venisse annacquata prima di essere distribuita.Una mezza pinta di rum mischiata con un quarto di acqua e servita in due parti, prima di mezzogiorno e dopo la fine della giornata lavorativa, divenne parte del regolamento ufficiale della Royal Navy. A Vernon era stato affibbiato il nomignolo di: «Old Grog», poiché era suo uso indossare un mantello di «Grogram», una ruvida stoffa a base mista di lana e seta. Questo nomignolo fu presto dato anche alla bevanda, che da allora divenne nota come «Grog». Col tempo la distribuzione della razione di rum si arricchì di un rituale elaborato. I sottufficiali venivano serviti per primi e avevano diritto a una razione di rum non diluita. La truppa beveva il suo «Grog» in un unico sorso, quando aveva finito il proprio lavoro attorno a mezzogiorno. Nella Marina inglese il «Grog» rimase parte della razione giornaliera dei marinai fino al 1970. Con questo liquore venne conservato il cadavere dell’ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805), deceduto nella battaglia di Capo Trafalgar (21 ottobre 1805), come confermano i documenti degli archivi britannici. Il suo corpo venne conservato in una botte di rum fino al rientro in Inghilterra, dove ricevette i funerali di Stato. Il suo corpo venne solennemente tumulato a Londra nella Cattedrale di San Paolo, all’interno di una bara ricavata da un pezzo di legno, ripescato in mare appartenente all’albero maestro dell’Orient, ammiraglia francese nella battaglia del Nilo o della Baia d’Abukir, che si svolse tra la sera del primo e la mattina del 2 agosto 1798.
La battaglia segnò il trionfo della Marina britannica, nonché l’inizio della leggenda di Nelson. All’arrivo in madre patria, si scoprì che nella botte non vi era più traccia d’alcol. I marinai avevano praticato un foro sul fondo e bevuto tutto il rum, ignari o incuranti del fatto che all’interno giaceva il corpo dell’ammiraglio. Ancora oggi, memori di questo episodio, viene prodotto il «Nelson’s Blood», rum dall’inconfondibile colore rosso. Dunque un liquore che si produce con la distillazione della canna da zucchero, canna che si coltivava intensamente in quelle isole. Ma qui viene il bello! Il miglior rum proveniva e proviene tutt’ora da una città tedesca. Per molti secoli uno dei centri del Granducato di Schleswig, fino al 1864 sotto il dominio della Danimarca. Passato alla Prussia di Bismark, e in seguito alla Germania, il suo nome: Flensburg, in italiano Friburgo. La città trovandosi sul Mar Baltico, aveva tutte le carte in regola per diventare una città commerciale e soprattutto il declino della Lega Anseatica nel XVI secolo, permise ai suoi commercianti di entrare nei grandi affari internazionali. L’olio di balena, le aringhe sotto sale e lo zucchero erano le merci che resero la città ricca. Nel XVII secolo Flensburg era ancora danese, e la flotta delle Indie Occidentali del regno permise un fiorente commercio con le isole dei Caraibi, merci colonili soprattutto zucchero greggio di canna e cannella. Navi mercantili salpavano da Flensburg per far rotta sulle isole nei Caraibi, ritornando nella città del nord, riportando quella materia prima per la produzione di un ottimo rum, che divenne famoso in tutto il mondo, tanto che la stessa città divenne la capitale del rum in Europa. Oggi in ricordo di quel periodo mercantile si svolge a Flensburg una regata annuale denominata «Rumstadt», in omaggio al rum a cui partecipano un centinaio di barche a vela. Il primo premio è un simbolo per lo più inutile, quindi assistiamo a un paradosso, che molti skipper tentano di arrivare secondi, infatti il premio per il secondo arrivato è una bottiglia di rum di tre litri, della ditta Johannsen Rum, uno degli ultimi due «Rumhäuser» della città. Direttamente nel vecchio porto sorge il museo della marina «Schiffahrtsmuseum». Nel suo piano interrato si trova il «Museo Rum» che ospita vaste esposizioni sulla storia della «Rumimports», il commercio del rum a Flensburg. L’appassionante museo marittimo racconta la storia del rum e dei marinai che lo trasportavano e lo bevevano. Oggi il rum più costoso al mondo, risulta il «Legacy by Angostura». Nel dicembre 2012, in occasione del 50esimo anniversario dell’indipendenza di Trinidad & Tobago, la casa produttrice di rum Angostura lancia una limitata ed esclusiva produzione denominata «Legacy by Angostura», il rum più costoso al mondo che racchiude in se tutta l’esperienza di Angostura che vanta una storia di quasi 200 anni. Solo 20 bottiglie, da 500 ml, del valore stimato di 25.000 dollari. Il progetto è stato completato in sei anni di meticoloso lavoro, che ha dato vita a una miscela delle sette etichette di rum più rare e pregiate del marchio. Tutti i rum che compongono la ricetta hanno raggiunto la maturazione in botti di rovere americano da 200 litri, un tempo utilizzate per l’invecchiamento del bourbon, presso la distilleria Angostura di Trinidad; il più «giovane» di loro è invecchiato 17 anni.
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ECCO COME LA MODA DEL GIN HA QUASI DISTRUTTO LA LONDRA DEL XVIII SECOLO
Londra, 1730: circa 7000 negozi di gin stavano trasformando i londinesi in alcolisti degenerati, i cui atti di violenza e devastazione sociale sono paragonabili a quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni ’80.
La Londra a cavallo fra il 1700 e il 1800 è stata protagonista di una storia d’amore sconvolgente e devastante con il gin, conosciuto popolarmente come “la rovina della madre”. La situazione era talmente grave da poter tranquillamente affermare Londra stesse letteralmente affogando nel gin.
Si calcola che circa 7000 negozi di gin (e probabilmente molti di più, se solo fossimo in grado di contare quelli illegali), appagassero il commercio di questa bevanda nel solo 1730. Parliamo di più di 37854117 litri di gin distillati ogni anno. Volendo fare un paragone, i resoconti sugli episodi di violenza, dipendenza diffusa e più in generale devastazione sociale possono ricordare quelli dell’epidemia di crack negli Stati Uniti degli anni Ottanta.
Per i londinesi appartenenti alla classe operaia, il gin era diventato ben più di una sola bevanda. Il gin placava gli spasmi della fame, offriva sollievo dal freddo perenne presente in città, ed era considerato una sorta di fuga dalla dura routine lavorativa nelle fabbriche e nei bassifondi. Si trattava di una “botta di vita” economica e facilmente reperibile a ogni angolo squallido della strada o fra gli antri di una qualsiasi cantina sordida della città. E così, nel giro di poco tempo, il gin ha portato scompiglio per tutto il centro di Londra.
Thomas Fielding, uno studioso della storia sociale dell’epoca, così scrisse della situazione creatasi a Londra per colpa del gin nei confronti di quelle da lui definite come “persone inferiori”, in un pamphlet del 1751 dal titolo Indagine sulle cause dell’aumento dei rapinatori:
“Un nuovo tipo di ebbrezza, sconosciuto ai nostri predecessori, si sta espandendo a macchia d’olio fra di noi e, qualora non riuscissimo a fermarlo, in procinto di distruggere buona fetta delle persone inferiori. Sto parlando dello stato di ubriachezza provocato da quel veleno chiamo Gin, altresì noto come la principale forma di sostentamento (se così si può dire), di più di centinaia di migliaia di persone abitanti in questa metropoli.”
Ma perché il gin? Perché è stato proprio questo particolare alcolico e non, per esempio, il brandy e il whisky, a causare una simile devastazione?
Quindi ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.
Il brandy, che prima dei lunghi anni di conflitti fra la Francia e la Gran Bretagna riversava copioso nei calici della città, divenne con lo scoppiare della guerra improvvisamente fuori moda, se non addirittura considerato antipatriottico. Come se non bastasse, per rompere il monopolio francese sul mercato degli alcolici era intervenuto anche il Parlamento con una serie di atti legislativi volti a favorire la produzione di spiriti in casa.
A favorire il clima di espansione degli alcolici ci pensò l’economia che, durante gli stessi anni, portò i prezzi del cibo ad abbassarsi notevolmente, permettendo quindi alla classe operaia di spendere le rimanenze degli stipendi proprio in alcol.Sebbene il gin sia ormai avvolto da un’aurea sofisticata e urbana durante tutto il Ventesimo secolo, riportando alla mente di molti le immagini nostalgiche di Humphrey Bogard in Casablanca, o anche di Ian Flaming appoggiato al bancone di qualche bar a sorseggiare martini, durante il Diciottesimo secolo la sua fama non avrebbe potuto essere più diversa.
I racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca.
Importato dall’Olanda negli ultimi anni del Diciassettesimo secolo, il jenever olandese era originariamente un tipo di spirito molto meno forte del gin che conosciamo (conteneva circa una percentuale alcolica del 30%). Il gin poi distillato a Londra era però diabolicamente più forte e, come se non bastasse, spesso adulterato con sostante pessime. Quindi, ricapitolando, qui non si tratta del gin dry sofisticato che tutti conosciamo, bensì di una brodaglia infernale che ustionava gole, arrossava gli occhi e provocava non pochi conati di vomito a chiunque la assumesse.
La trementina e l’acido solforico erano sovente parte di questo brodo, così come nel moonshine americano e nel poteen irlandese, e i racconti di chi rimaneva cieco a causa del gin erano frequenti nella Londra dei bassifondi dell’epoca. Una delle segnaletiche più note presenti sopra alle cantine in cui si serviva gin, avvertiva i consumatori che per un penny si sarebbero ubriacati mentre per due sarebbero diventati talmente ubriachi fradici da svenire su un letto di paglia (questo avrebbero però potuto farlo gratis).
Ci fu però un tragico evento che, come spesso succede, catturò tutta l’opinione pubblica dell’epoca sollevando un grido di protesta talmente alto da dare il via alla fine della moda del gin. Nel 1734 una donna di nome Judith Dufour strangolò il figlio di soli due anni per poterne vedere i vestiti in cambio di un po’ di gin. La copertura mediatica dell’accaduto face in modo che il Parlamento (che dal commercio di gin intascava copiose tasse) agisse legislativamente. Nel giro di soli venti anni, il Parlamento inglese riuscì a far passare tutta una serie di emendamenti che rallentarono la sete (apparentemente inesauribile) di gin della città.
Fra tutti, il Gin Act del 1751 si distinse per importanza. L’emendamento proibiva ai distillatori di vendere il gin a commercianti non autorizzati e, allo stesso tempo, aumentava le commissioni a quelli più piccoli. Tale decisione portò i piccoli negozianti a non riuscire più a vendere gin, e quelli più grandi a venire stretti da una morsa di continui controlli di qualità, che però garantivano una vendita d’eccellenza.
Lo storico GM Trevelyan così descrisse l’emendamento del periodo nel terzo volume del suo Storia sociale illustrata:
“Il Gin Act del 1751 non ha davvero diminuito il consumo eccessivo di alcol. Tuttavia, ha comunque marcato un punto di svolta importante nella storia sociale di Londra, i cui abitanti valutarono positivamente i suoi risvolti, persino dopo che alcuni dottori dell’epoca attribuirono comunque un ottavo delle morti totali di Londra proprio al consumo di gin. Il peggio era, infatti, passato, e ben presto arrivò comunque il tè a primeggiare sull’alcol.”
una volta passato l’atto, la moda del gin fu immortalata per sempre nella famosa opera Gin Lane di Hogarth.
L’artista si ritrovò a ritrarre una Londra dei bassifondi devastata dall’alcolismo. Gin Lane, in tutta la sua veridicità sconvolgente, mostrava un quadro generale di deprivazione. Raccontava di bambini intenti a camminare su di una ringhiera mentre le madri rimanevano sedute inibite dai fumi dell’alcol, di mendicanti impegnati a litigare con dei cani per dei pezzi di ossa, di risse scoppiate per la strada con tanto di corpi privi di vita derubati dei propri averi, di prestatori su pegno arricchiti a spese di chi, per un po’ di gin, era disposto a vendere i propri beni più cari.
La stampa era accompagnata da questo verso di James Townley: “Gin, maledetto demonio, pieno di furia: rendi la razza umana una preda, assoggettandola a un richiamo mortale, privandola della sua vita.”
Gin Lane era inoltre anche seguita da un’altra stampa sempre di Hogarth intitolata Street Beer, che esaltava invece le virtù spensierate fuoriuscite dalle botti schiumose di birra. Street Beer raffigurava il fulcro di un’industria focalizzata su “il bel prodotto della nostra isola… il cui succo aromatico viene da noi tracannato con gioia lasciando solo l’acqua ai francesi.”
Tuttavia, sebbene il gin a buon mercato sia stato disprezzato per un po’ di tempo, negli ultimi anni il susseguirsi di alcune vicende ne ha mutato la percezione. Una piccola selezione di distillerie ha aperto le proprie attività a Londra, vincendo riconoscimenti vari per le proprie distillazioni botaniche. La Sipsmiths, per esempio, ha vinto premi per il suo London Dry Gin, mentre la East London Liquor Company delizia i suoi clienti con vecchi metodi di distillazione (tutti di qualità eccelsa), che includono gin messo in infusione con buccia di pompelmo, cardamomo, bacche e altre erbe botaniche.
Ora è sicuramente tutto più rispettoso e sofisticato, ben lontano dai tempi in cui la gente di azzuffava fuori dai locali per una pinta di gin, però è comunque meglio non definirla “moda”.
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Lo scioglimento dei ghiacciai ? Tutta colpa dei barman. Lo rivela una ricerca
Inchiesta esclusiva a cura di Fulvio Piccinino e Stefano Nincevich
Consegna del ghiaccio, 1918. Foto originale in bianco e nero colorata da Dana Keller Il ricercatore americano Ernest Kowalsky, direttore dell’Ice Warning Research Institute con sede a Philadelphia (Pennsylvania) e Karl Gibson dell’Uicg (Unione Internazionale per la Conservazione dei Ghiacciai) con sede a Fairbanks in Alaska, dopo 15 anni di ricerche sono giunti alla conclusione che l’inizio dello scioglimento dei ghiacciai avrebbe un principale imputato: l’uso indiscriminato che ne fecero i primi barman per mescolare i primi cocktail della storia.
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I due noti scienziati hanno accertato che i ghiacciai iniziarono a ritirarsi intorno alla seconda metà dell’Ottocento e fino ad oggi si era messo sul banco degli imputati il riscaldamento globale e la nascita delle industrie. In realtà sembrerebbe che il riscaldamento del pianeta sia stato solo un effetto parallelo, che si è aggiunto allo sfruttamento indiscriminato dei ghiacciai da parte dei barman per raffreddare i cocktail.
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Bargiornale ha incontrato i due ricercatori americani per capirne di più: «Ci sono diverse prove – commentano – a conferma di questa nostra teoria. A fine dicembre navi e treni si dirigevano verso i luoghi freddi della Terra per raccogliere gli immensi blocchi di ghiaccio che, staccati, fatti a pezzi e confezionati in casse di legno, venivano spediti nelle città per essere spezzettati nei bicchieri. Si calcola che ogni giorno, nella sola America del Nord, circa 2.000 tonnellate di ghiaccio fossero sottratte. Non andava meglio in Europa dove i ghiacciai delle Alpi venivano letteralmente saccheggiati da cacciatori di ghiaccio che si arricchivano vendendo a peso d’oro i blocchi da qui ricavati. Una volta giunti a destinazione i grandi parallelepipedi venivano sezionati e venduti ai bar che, forti della novità delle bevande fredde facevano affari d’oro, incuranti dei problemi che sarebbero sorti. In pochi anni i ghiacciai persero il 20% del proprio volume, con il suo massimo negli anni Venti quando la miscelazione nei bar ebbe il suo culmine. Fortunatamente il fenomeno prese a rallentare con la diffusione delle macchine per il ghiaccio, beni di lusso brevettato dal Dr. Gorrie nel 1850, ma che solo dopo gli anni Trenta iniziarono a diffondersi capillarmente. Ma ormai lo scempio era compiuto. Come potete vedere anche in questo filmato esclusivo girato intorno agli anni Venti proprio a Philadelphia.
Amish e la raccolta del ghiaccio Minati nelle loro fondamenta i ghiacciai porsero la guancia al riscaldamento globale, ritirandosi progressivamente. Ora la comunità di scienziati, guidata dai professori Kowalksy-Gibson, spinge per chiedere un maxi-risarcimento all’IBA per poter finanziare la creazione di rivoluzionari cannoni spara neve che posizionati sui ghiacciai in sofferenza contribuiranno alla riformazione del ghiaccio. Questo però comporterebbe un problema non da poco in tema di impatto ambientale: lo sbancamento di aree destinate a bacini artificiali di raccolta di acqua. Staremo a vedere.
Non è una semplice bufala, ma un vero pesce d’aprile. No, non esiste nessun prof Kowalsky o Gibson e nemmeno l’Unione Internazionale per la Conservazione dei Ghiacciai o l’Ice Warning Research Institute. E no, i barman non sono stati complici dello scioglimento dei ghiacciai né in Alaska né sulle Alpi. Quindi non c’è alcuna fantomatica richiesta a IBA per finanziare la creazione di cannoni spara neve per riparare ai danni del passato. L’articolo è scritto a due mani da due autori che da decenni si occupano di divulgazione e ricerca storica sul nostro settore. Lo fanno con passione, professionalità, determinazione ed entusiasmo. Ma sanno anche quanto l’ironia sia un buon palliativo in tempi di crisi.
In un periodo nero ormai lungo più di un anno in cui i pubblici esercizi continuano ad essere penalizzati c’è veramente poco da ridere. Questo racconto voleva solo strapparvi un sorriso. Detto questo, come voi, siamo in trepidante attesa che le riaperture possano avvenire al più presto e tutti possano tornare a una condizione di lavoro normale.
Una postilla: le immagini sono tutte originali dell’epoca. Raccontano di un tempo, neanche troppo lontano, in cui il ghiaccio veniva effettivamente ricavato, raccolto e trasportato in zone ghiacciate per essere distribuito, in grossi formati, e per vari usi. Diciamo che il ghiaccio utilizzato per i cocktail era davvero residuale. Il video è un’elaborazione dell’originale “Ice Harvesting Pocono Manor, 1919” .
Fonte Bargiornale
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Whiskey in segreto, il Proibizionismo americano al Chiaro di luna
Cos’è il Moonshine?
Quando si parla del periodo del proibizionismo Americano non si può non parlare di Moonshine – che significa “al chiaro di luna” – è un termine americano coniato per indicare un distillato, normalmente di mais, prodotto artigianalmente e clandestinamente. Bene, abbiamo capito cosa significa la parola moonshine, ma per quale motivo prende questo nome? Beh, la prima cosa da spiegare è che il moonshine nasce come distillato illegale, e per questo motivo non può essere prodotto alla luce del sole, dimenticatevi quindi la costruzione di distillerie, l’assunzione di personale, la maturazione in botte e il ovviamente il pagamento delle tasse. Il moonshine è infatti un distillato artigianale, che non passa neanche un giorno in botte e che viene prodotto in posti isolati, vicino a fiumi (c’è sempre bisogno di abbondante acqua fresca per produrre distillati) e durante le ore notturne perché: “Quando spunta la luna tacciono le campane e i sentieri sembrano impenetrabili”. -
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