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Addio al Cantineros Dom Costa, mito indiscusso del mondo Bartender
E’ morto venerdì Dom Costa, uno dei bartender italiani più conosciuti in assoluto nel mondo. Ricercatore appassionato, grande esperto di storia della mixology, era malato da tempo.
Domenico Costanzo (questo il suo vero nome) era nato a Vibo Valentia, in Calabria, era cresciuto a Torino e aveva iniziato a lavorare dietro a un bancone giovanissimo, a bordo delle navi da crociera. Si vantava, a ragione, di avere girato 65 Paesi, preparando cocktail dall’Alaska all’Equatore e da Capo Nord allo Stretto di Magellano.
Da tempo Dom Costa si era stabilito a Genova. Ad Alassio aveva fondato nel 2003 e gestito per molti anni il Liquid, noto cocktail bar con cui si era aggiudicato diversi premi (fra cui il Diamond Award per la migliore cocktail list al Barfestival di Rimini nel 2010), per poi dedicarsi esclusivamente alle collaborazioni come consulente e brand ambassador con numerose aziende del settore dei distillati. L’ultima, in ordine di tempo, Velier, dove ricopriva il ruolo di mixology expert. Occupandosi in particolare negli ultimi anni soprattutto di distillati a base di agave, attraverso frequenti viaggi in Messico.
Allo scopo di diffondere la cultura della mixology e organizzare eventi di settore, con Luca Pirola, Dario Comini e Agostino Perrone aveva dato vita al gruppo Bartender.it, che aveva poi lasciato nel 2022 per dissidi con Pirola. E nel 2015 aveva pubblicato “Drinkzionario“, uno dei testi fondamentali per ogni professionista e appassionato di bere miscelato, un compendio di terminologie, ricette e storie di cocktail e bartender frutto della grandissima competenza, cultura storica e passione per un mondo nel quale Dom Costa, in cinquant’anni di carriera, ha lasciato un segno indelebile.
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Roma Barshow 2023
Programma Roma BarShow 2023
PROGRAMMA 29 MAGGIO
14:30 – 15:30 > The Art of Japanese Bartending
16:30 – 17:30 > Lessons of a Bar Owner
18:30 – 19:30 > Premiazione RBS Awards
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PROGRAMMA 30 MAGGIO
14:00 – 15:00 > Unlocking the secrets of the world’s best
15:30 – 16:30 > The Evolution of American cocktail culture
18:00 > closing Finale Diageo World Class
Palazzo dei Congressi . Piazza John Kennedy, 1 Roma
- AEREOPORTI
Da Aeroporto di Fiumicino: taxi (circa 15/20 minuti), treno Leonardo Express Fiumicino – Termini e da Termini metropolitana linea B direzione Laurentina e uscita EUR Fermi. Da Aeroporto Ciampino: taxi (circa 15/20 minuti).
- TRENO - STAZIONI TERMINI / TIBURTINA
Alla stazione Termini prendere la metropolitana linea B direzione Laurentina e uscita EUR-Fermi.
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I 10 piatti da mangiare più costosi al Mondo
Nel mondo si possono gustare tantissimi piatti buonissimi che sono preparati con ingredienti molto prelibati e molto molto cari. Ma quali sono i più costosi da mangiare e dove si possono trovare?
Dalla semplice pizza arricchita con tartufo al dessert guarnito con pietre preziose, gli chef non hanno avuto nessun limite all’immaginazione e soprattutto al costo di queste portate dai prezzi davvero esagerati e non per tutte le tasche.
Quanto si può arrivare a spendere per un hamburger e quanto per una frittata di uova? I costi sono davvero da capogiro ma gli ingredienti ricercati, come le foglie d’oro commestibili, giustificano in parte la cifra esagerata.
Se siete curiosi di sapere quali sono i prezzi e in quali ristoranti del pianeta si possono trovare queste pietanze e, magari, copiare qualche segreto dei grandi chef, non vi resta che leggere questa classifica sbalorditiva.
Scopriamo insieme i 10 piatti da mangiare più costosi al mondo:
1) The douche burger: l’hamburger con aragosta e tartufi
Al 666 Burger di New York si possono gustare molti tipi di hamburger con un costo abbordabile per tutti: 6,66 dollari. Però il menù del locale riserva una sorpresa. Infatti si potrà assaporare quello più caro al prezzo di 666 dollari. Questo panino si chiama il The Douche Burger e contiene: manzo di Kobe (avvolto in foglia d’oro), foie gras, caviale, aragosta, tartufi, formaggio stagionato di gruviera fuso con vapore di champagne, salsa barbecue di Kopi Luwak e sale himalayano.
Fonte immagine: @design_foodporn
2) Fleurburger: l’hamburger più costoso
Pensate che l‘hamburger più costoso del mondo, sia quello citato prima? Niente affatto, perché il più caro si può mangiare solo a Las Vegas, al Fleur, e si chiama Fleurburger. Questa delizia costa 5.000 dollari ed è una creazione dello chef Hubert Keller. Gli ingredienti di questo panino sono: manzo di Kobe, tartufo nero, foie gras e salsa al tartufo.
Chef Francese Hubert Keller Fonte immagine: CocinaYVino
3) White Truffle & Gold Pizza con mozzarella biologica
Meglio una pizza di un hamburger! E allora perché non provare la White Truffle & Gold Pizza. Gli ingredienti sono: mozzarella biologica, foglia d’oro da 24 carati e tartufi del Piemonte. Questo piatto si può gustare al Margo’s Pizzeria a Malta con un costo di 2.420 dollari ma bisogna prenotarla con una settimana di anticipo.
Fonte immagine: google
4) Dall’Italia la Pizza Louis XIII
Anche il nostro bel Paese non è da meno in fatto di piatti super costosi. Infatti, dall’Italia arriva la Pizza Louis XIII, ideata da Renato Viola, servita per due persone con piatti e posate in edizione limitata. Il costo è di euro 8.300 e l’impasto contiene: farina biologica, sale rosa australiano e un mix di lievito naturale e lievito di birra. Mentre gli ingredienti pregiati sono: il caviale Oscietra Reale Prestigio, il Caviar Kaspia Oscietra Reale Classico, il Caviar Kaspia Beluga, i gamberoni rossi di Acciaroli (Cilento), l’aragosta di Palinuro, la cicala del Mediterraneo, la mozzarella di bufala campana biologica DOP, il Cognac Louis XIII Remy Martin, lo Champagne Clos Du Mesnil 1995 Krug e il Cardenal Mendoza Carta Real Sanchez Romate Finos.
Fonte immagine: Delhi Royale
5) La Pizza di James Bond
In questa classifica non manca la pizza dedicata a James Bond. Questo tipo si chiama pizza Royale 007 ed è stata creata nel 2007 dallo chef italiano Domenico Crolla. Gli ingredienti per questo piatto dal prezzo di euro 3.000 sono: il salmone scozzese affumicato, i medaglioni di cervo, l’aragosta marinata nel cognac, il caviale imbevuto nello champagne e scaglie d’oro commestibili a 24 carati.
Fonte immagine: google
6) La zuppa più costosa del mondo: la Anqi Pho Soup
Dopo hamburger e pizza, ecco un piatto più leggero ma altrettanto caro. La zuppa più costosa del mondo è servita a Beverly Hills, nel ristorante vietnamita Pho. La Anqi Pho Soup costa circa 4.000 euro a porzione e gli ingredienti sono: il manzo di Kobe, il tartufo di Alba, i noodles ed il brodo di foie gras.
Fonte immagine: YouTube
7) La frittata: Zillion Dollar Lobster
Anche una frittata al Norma’s di New York si può trasformare in un piatto da ricchi. Infatti, la Zillion Dollar Lobster Frittata costa ben 1.000 dollari ed è preparata con sei uova. Però, gli ingredienti, 280 grammi di caviale sevruga, aragosta ed erba cipollina, giustificano il prezzo più che oneroso. Inoltre, esiste anche una versione più piccola a “soli” 100 dollari.
Fonte immagine:@bartime
8) Il gelato con il caviale dolce
Nel 2004, il Serendipity 3, a New York, ha realizzato un gelato molto particolare: il Golden Opulence Sundae. Gli ingredienti di questa prelibatezza sono: la foglia d’oro commestibile, la salsa di cioccolato fondente Amedei, una guarnizione di caviale dolce con frutto della passione. Il tutto è servito in una coppa di cristallo Baccarat con un cucchiaio d’oro da 18 carati al prezzo di 1.000 dollari.
Fonte immagine: CNBC.com
9) Il dessert da gustare in Sri Lanka: il Fortress Stilt Fisherman Indulgence
Questo menù super costoso non poteva che terminare con i dolci. Il dessert Fortress Stilt Fisherman Indulgence, del The Fortress Resort and Spa in Sri Lanka, rientra a pieno titolo in questa classifica con un costo pari a 14.500 dollari. Il dolce è una cassata italiana con crema irlandese, frutta di stagione, un composto di mango e melograno, del Dom Pérignon, il tutto avvolto in una foglia d’oro. Viene servito con un cioccolatino fatto a mano a forma di pescatore e una pietra di acquamarina.
Fonte immagine: luxatix
10) Il gelato più caro del mondo: Frrrozen Haute Chocolate Ice Cream Sundae
Ad aggiudicarsi il dessert più costoso del mondo è il Serendipity 3 di New York con il famoso Frrrozen Haute Chocolate Ice Cream Sundae a 25.000 dollari. Questo gelato è preparato con 28 tipi di cacao e 5 grammi di oro edibile ed è servito con un cucchiaino e un bracciale in oro 18 carati.
Fonte immagine: Pinterest
I gelati più costosi del mondo nel post dedicato ai cibi luxury, a cura di Lusso Mag
Non tutti i gelati sono uguali e, chi fa del lusso il proprio stile di vita, non può ignorare il fatto che anche questo dolce, in apparenza semplice ed economico, diventa in qualche caso un’icona di stile e seducente, gelati costosi quindi e non per tutte le tasche.
In queste creazioni imprevedibili, firmate dai più grandi maestri gelatai, il gusto si fonde con la bellezza delle presentazioni e con la ricchezza degli ingredienti più sublimi per dare vita a coppe indimenticabili e raffinate. Il lusso si traduce, in questo caso, nella scelta di dessert dai prezzi esorbitanti.
Di sicuro non sono alla portata di tutte le tasche…….
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La chinina: l’antidoto che arrivò dall’America
Intorno al 1630 gli spagnoli scoprirono in Perù le proprietà della corteccia dell’albero di
china per curare una malattia contagiosa che imperversava all’epoca: la malaria
Nel corso della storia la malaria è stata una delle malattie più devastanti che il genere umano abbia dovuto affrontare. La patologia è causata da vari tipi di parassiti protozoi che si trasmettono all’uomo attraverso la puntura di zanzare anofele. Dato che le zanzare si riproducono in ambienti acquatici, i principali focolai della malattia si trovavano nei pressi delle paludi; infatti la malaria – cioè “cattiva aria” – è chiamata anche paludismo, dal latino palus, palude.
Il morbo si manifesta spesso con febbre, brividi, dolori articolari e addominali,perdita dell’appetito e vomito. Nella fase acuta il malato sperimenta momenti di freddo improvviso seguiti da accessi di febbre (le cosiddette terzane, ogni 48 ore, o quartane, ogni 72).
Attualmente si registrano circa 350 milioni di nuovi casi all’anno, e nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha denunciato la morte di più di 400mila persone, la maggior parte nell’Africa subsahariana. Ma nonostante queste sembrino cifre esorbitanti, in passato l’impatto della malaria fu decisamente peggiore, soprattutto perché per molto tempo non si trovava alcun rimedio minimamente efficace contro di essa. Rimedi come le purghe, i salassi e la somministrazione di diverse erbe, insieme al riposo, ai massaggi, all’idroterapia e al controllo della dieta, non apportavano quasi alcun beneficio. Infatti, le misure più efficaci erano le zanzariere, già menzionate da Erodoto a proposito dei pescatori del Nilo.
Lo scenario mutò radicalmente a metà del XVII secolo, quando i medici europei scoprirono le proprietà curative della china, un albero tipico di alcune zone delle Ande, in Sud America, dalla Bolivia fino al nord della Colombia e al Venezuela. La sua corteccia contiene diversi alcaloidi naturali – tra cui la chinina, la chinidina, la cinconina e la cinconidina – che mitigano i sintomi della malaria ed eliminano i parassiti dal sangue, anche se dopo il trattamento il paziente non è immune da ricadute. La chinina fu la più importante tra le “nuove medicine” che gli spagnoli portarono in Europa dall’America nel corso del XVI e del XVII secolo. Ciononostante, se da un lato sappiamo dove e quando ebbe luogo la scoperta, dall’altro persistono ancora dei dubbi sulle circostanze che portarono a compiere questo gran passo in avanti nella storia della medicina.
La contessa di Chinchón
A quanto pare la scoperta avvenne grazie ai gesuiti che approdarono nella zona dell’attuale Ecuador agli inizi del XVII secolo. Si narra che a Loja, una città fondata nel 1548, un capo indiano fosse riuscito a curare le febbri terzane di un gesuita, fino a far scomparire la malattia. Nel 1630 questo gesuita avrebbe consigliato lo stesso rimedio al governatore di Loja, Juan López de Cañizares, che aveva contratto la malaria ed era guarito solo grazie alla corteccia della pianta di china.
La Malaria, di Ernest Hébert, olio su tela che raffigura un gruppo di persone su una barca in una palude. 1850. Museo d’Orsay, Parigi
Foto: Dea / Album
Un anno più tardi avvenne l’episodio a cui si fa risalire la scoperta della china. Così come narrò pochi anni dopo il medico genovese Sebastiano Baldo, la sposa del viceré del Perù, il conte di Chinchón, si ammalò a Lima di febbre terzana, il sintomo inconfondibile della malaria, «che in quella zona non solo è frequente, bensì grave e carica di pericoli». La notizia della malattia della contessa di Chinchón si diffuse per il vicereame e arrivò fino a Loja, dove il governatore decise di scrivere immediatamente al viceré spiegandogli che «possedeva un rimedio segreto che raccomandava fortemente e che, se il Viceré lo desiderava, avrebbe guarito la sua sposa curandola da tutte le febbri». Senza perdere tempo, il viceré invitò il governatore a Lima e «una volta assunto il rimedio, come per miracolo, la sua consorte guarì tra lo stupore generale». Questa storia si diffuse rapidamente in tutta Europa, fino al punto che il naturalista svedese Carlo Linneo diede all’albero di china il nome tecnico di Cinchona officinalis (dimenticandosi di una “h” forse a causa della confusione tra l’ortografia castigliana e la latina).
Indipendentemente dal fatto che la storia della contessa di Chinchón, in tutti i suoi particolari, sia autentica o meno, è innegabile che la conoscenza della china si fosse diffusa proprio in quegli anni a partire dal vicereame del Perù. Nel 1638 il monaco agostiniano Antonio de la Calancha scriveva: «Nella terra di Loja cresce una pianta che chiamano albero della febbre, la cui corteccia, del colore della cannella, quando viene ridotta in polvere e somministrata come una bevanda nella misura di due cucchiaini d’argento, cura le febbri e le terzane; a Lima ha prodotto risultati miracolosi».
Imparare dall’osservazione
Dal canto suo, il medico Gaspar Caldera de Heredia pubblicò nel 1663 un libro specificamente dedicato alla china in cui forniva dettagli relativi alla sua scoperta. Caldera affermava che i gesuiti delle missioni andine, stanziati nei pressi delle miniere, avevano notato che quando gli indiani tremavano, in seguito all’esposizione all’umidità e al freddo, erano soliti ridurre in polvere la corteccia della china e poi assumerla disciolta in acqua calda. Spesso sorseggiavano l’infuso proprio al momento di attraversare i fiumi per recarsi sui luoghi di lavoro, così da eliminare i fastidiosi tremori muscolari.
Secondo la leggenda, per calmare la sete causata dalla febbre un nativo americano bevve acqua da un’oasi dove crescevano alberi di china. Visto che il rimedio funzionava, lo condivise con gli altri malati
Foto: Mary Evans / Scala, Firenze
I sacerdoti gesuiti ipotizzarono che quella corteccia si sarebbe potuta usare anche per curare gli stadi di freddo che precedevano le febbri e «ne somministrarono la polvere ad alcuni uomini affetti da quartane o terzane, riuscendo a guarirli». Di conseguenza, dopo aver constatato che le infusioni di china potevano eliminare i tremori, i missionari pensarono che avrebbero sortito lo stesso effetto anche sui brividi che anticipano le febbri paludose. Decisero dunque di provare, ottenendo un risultato almeno in apparenza simile.
Questi esperimenti ebbero un esito inaspettato, poiché non solo eliminavano i brividi e i tremori muscolari dello stadio freddo nel paludismo, ma evitavano anche la comparsa dello stadio caldo della febbre intermittente. Dopo aver dato prova dei suoi benefici, la china cominciò a essere usata per prevenire gli stati febbrili e infine sistematicamente per il trattamento del paludismo. Nel 1641 approdò a Siviglia, in Spagna, un grande carico di china e la sostanza in pochi anni si diffuse per tutto il continente. La corteccia della china si vendeva in polvere – da lì il nome «polvere dei gesuiti», «polvere febbrifuga» o «polvere della contessa», in ricordo della moglie del vicerè – in ogni tipo di bottega; addirittura nel 1660 a Londra la vendeva un libraio.
Il problema delle dosi
I medici elaborarono diverse formule. Tra questi, lo spagnolo Leandro de Vega nel XVIII secolo prescriveva questo «febbrifugo generale» per curare le «febbri intermittenti»: «2 once di china di qualità sbriciolata; 2 libbre d’acqua comune. Fai bollire il tutto fino a ridurlo a una libbra e dopo colalo. Alla polvere restante aggiungi nuovamente dell’acqua comune, 2 libbre. Riducilo di nuovo fino a una libbra e dopo colalo. Mescola le due colature e conservale per l’uso. Somministrare dosi di 4 once ogni tre ore quando non si hanno i sintomi».
Tuttavia, questi trattamenti non sempre erano efficaci. Oltre al fatto che alcuni commercianti vendevano miscele false, non si conosceva la dose esatta necessaria per la cura e, pertanto, le ricadute erano frequenti. Le cose cambiarono intorno al 1820, quando due chimici francesi, Pelletier e Caventou, isolarono un nuovo alcaloide della corteccia della china, che denominarono chinina. I preparati a base di piante medicinali – variabili, incerti e spesso manipolati – furono così sostituiti da farmaci facili da ingerire e provvisti di indicazioni di dosaggio esatte, poiché contenevano unicamente il principio attivo.
In questo disegno di J. Bertuch del 1798 sono rappresentati l’albero e la corteccia della china
Foto: Florilegius / Album
CLASSIFICAZIONE
Dominio: Eukaryota (Con cellule dotate di nucleo)
Regno: Plantae
Sottoregno: Tracheobionta (Piante vascolari)
Superdivisione: Spermatophyta (Piante con semi)
Divisione: Angiospermae o Magnoliophyta (Piante con fiori)
Classe: Magnoliopsida (Dicotiledoni)
Sottoclasse: Asteridae
Ordine: Rubiales
Famiglia: RubiaceaeNOMI POPOLARI E INTERNAZIONALI Corteccia Della Contessa O Dei Gesuiti, Rimedio Degli Inglesi, China Bark, Fever Tree, Jesuit´s Bark, Quinas; CHINA ROSSA: Red Cinchona, Red Peruvian Bark, Cascarilla, Chinarinde, Quinine Tree, Quinquina Rouge, C. Rubra, Chinarindenbaum, Fieberrinde; CHINA GIALLA: Yellow Cinchona, Calisaya Bark, Ledger Bark SINONIMI DEL NOME BOTANICO Cinchona succirubra Pav. et Klotsch (C.ROSSA), Cinchona calisaya Wedd. (C.GIALLA), Cinchona pubescens Vahl. (C.ROSSA), Cinchona ledgeriana Moens ex Trim. (C.GIALLA) HABITAT Originaria dell’America centro-meridionale (Perù e Bolivia), coltivata in India, Giava, Antille. Cresce bene con clima caldo-umido. FIORITURA O ANTESI
Agosto, Settembre, Ottobre, Estate, AutunnoCOLORI OSSERVATI NEL FIORE ________ BIANCO-VERDASTRO ________ ROSA ________ ROSSO-PORPORA -
La storia del Gin Tonic
Il “G&T” (Gin Tonic) è uno dei cocktail più amati da giovani e meno giovani e nei suoi duecento anni di esistenza, non è mai passata di moda. A proposito del Gin Tonic Winston Churchill un giorno ha dichiarato: “La bevanda gin tonic ha salvato la vita e le menti di più inglesi di tutti i medici dell’Impero”.
Tutto ebbe inizio in una terra esotica e lontana: l’india. Mentre la Gran Bretagna colonizzava questo vasto paese per tutto il XIX secolo, gran parte dei viaggiatori e dei coloni soffriva di malaria. La febbre ha devastato decine di europei, ma nel XVII secolo gli spagnoli scoprirono che le popolazioni indigene dell’attuale Perù usavano una corteccia per curare le febbri. Una corteccia di china rubata, ben presto è diventata un trattamento preferito per la malaria in Europa. Si scoprì presto che non solo curava la malaria, ma funzionava anche in modo preventivo.
Il principio attivo all’interno della corteccia, il chinino, divenne un’arma potente per l’Impero Britannico, poiché consentiva ai suoi soldati di governare in terre lontane. Tuttavia, c’era un problema. La polvere di chinino era intensamente amara e difficile da ingoiare. Naturalmente, gli inglesi lo diluirono in acqua zuccherata e nacque “l’acqua tonica” nella sua prima forma.
Non molto tempo dopo la diffusa popolarità del chinino, Schweppes introdusse nel 1870 il “tonico chinino indiano“, prendendo di mira la crescente popolazione di britannici all’estero che erano incoraggiati a prendere una dose giornaliera di chinino. Alla fine “il tonico” è tornato in patria come bevanda salutare.
Anche il liquore al gin stava crescendo in popolarità nel 19° secolo. Era solo una questione di tempo e opportunità prima che un colono decidesse di prendere la sua acqua tonica al chinino indiano con un bicchiere di gin.
D’altra parte, potrebbe esserci un posto migliore dei caldi tropici dell’India per godersi una fornitura fresca e rinfrescante come il gin tonic?
La STORIA del Gin Tonic
Il gin tonic è cresciuto in popolarità per il suo sapore delizioso e il suo scopo curativo, tanto che veniva spesso citato per le sue proprietà salvavita. Gin e Tonic sono anche semplici da preparare con solo due ingredienti e uno spicchio di lime o arancia per aumentarne la freschezza. L’importante è assicurarsi sempre di berne un bicchiere o anche due, d’altra parte la storia insegna che “questa è una bevanda che fa bene alla salute”.
La storia del gin tonic è legata all’esercito della British East India Company in India, quando nel 1700, il medico scozzese George Cleghorn era il ragazzo che studiava il chinino, considerato un ottimo rimedio per la malaria. Allora la gente consumava il chinino insieme all’acqua, ma il sapore non era mai buono.
Fu allora che gli ufficiali britannici in India, intorno all’inizio del XIX secolo, pensarono di mescolare acqua, zucchero, lime e gin al chinino, in modo che la bevanda diventasse più appetibile. Ai soldati in India veniva data una razione di gin in modo che il sapore dolce della bevanda fosse più gradito.
Ben presto il Gin Tonic diventa una bevanda molto popolare, soprattutto in estate. Esistono anche prove scientifiche che nel 2004 uno studio ha scoperto che il consumo di 500-1.000 ml di acqua tonica funziona come terapeutico. Il Gin Tonic è oggi uno dei cocktail famoso in tutto il mondo, tanto che il 19 ottobre di ogni anno si celebra “la giornata del Gin Tonic”.
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Cosa è il Navy Strength Gin e come nasce questa dicitura?
La storia del Gin Navy Strength è solo un altro capitolo dell’affascinante e della storia spinosa del Gin stesso. Possiamo ringraziare la marina britannica, non solo per il Gin Navy strength, ma per il Gin come lo conosciamo oggi.
Non c’è dubbio che la Royal British Navy abbia svolto un ruolo chiave sia nella produzione, nel consumo e nella prevalenza del Gin. L’uso di spezie esotiche nel Gin è stato reso possibile dalle importazioni dall’Africa e dall’Asia. La prevalenza di Gin in tutto il mondo è dovuta ai marinai che mettono piede in nuove città e in nuovi continenti.
Abbiamo tutti sentito parlare delle razioni di rum nella marina. Sconosciuto a molte persone è il fatto che, mentre gli uomini arruolati sopravvivevano con il rum, gli ufficiali della Royal Navy bevevano Gin.
La pratica di emettere razioni di alcol nella marina è iniziata nel 16 ° secolo. È iniziato con la birra, e talvolta con il vino e si è concluso con rum e Gin. La pratica di emettere razioni alcoliche fu abolita nella Royal Navy nel 1970. Tuttavia, la Royal New Zealand Navy ha abolito la pratica fino al 1990.
Cos’è il Gin Navy Strength?
Tecnicamente, tutto il Gin con più del 57,15% di alcol è un Gin Navy Strength. La ragione dell’alto contenuto alcolico risulta essere molto pratica.
Sia il Gin che il rum erano conservati in botti di legno insieme alla polvere da sparo sottocoperta. Nel caso in cui i barili di Gin o rum iniziassero a fuoriuscire e immergersi nella polvere da sparo, il contenuto alcolico doveva essere almeno del 57,15%. Qualsiasi cosa al di sotto di questo e la polvere da sparo non brucerebbe.
Alcol proof
Il termine “proof” deriva dal test di “prova” della Royal Navy britannica. Ciò comportava versare lo spirito sulla polvere da sparo. Se la polvere bruciava dopo essere stata immersa, indicava che c’era un contenuto alcolico sufficiente – o che il Gin era “a prova di polvere da sparo” – e il gin era ammesso a bordo.
Ciò significa che nel Regno Unito, uno spirito con il 57,15% è a prova di 100 gradi. Uno spirito con il 40% è a prova di 70 gradi.
Per rendere le cose più complicate, la definizione americana di “prova” è molto diversa. La prova dell’alcol negli Stati Uniti è definita come il doppio della percentuale di alcol in volume. Di conseguenza, il gin a prova di 100 gradi contiene il 50% di alcol.
Le caratteristiche di un Gin Navy Strength
Tutti i Gin vengono diluiti con acqua per raggiungere il livello desiderato di ABV (Alcohol By Volume).
Poiché il Gin è fatto aggiungendo ginepro, erbe, frutta e spezie allo spirito, ciò significa che il Gin Navy Strength non solo ha più alcol ma anche più del gusto originale.
Tuttavia, a causa del modo in cui l’alcol influenza il gusto, non puoi presumere che un Gin Navy Strength sia solo un gin con più dello stesso gusto rispetto alla sua versione diluita, devi assaggiarlo per determinare se ti piace, proprio come qualsiasi altro Gin.
Come usare un Gin Navy Strength
La maggior parte dei Gin Navy Strength può essere utilizzata sia in un Gin & Tonic, sia in un Dry Martini.
Il contenuto alcolico più elevato renderà più forte il Martini secco.
In un Gin & Tonic, l’alcol è più mascherato, ma dovresti essere pronto a usare un po ‘più di tonica di quello che useresti con un Gin standard.
Inizia usando la stessa quantità di tonica che faresti normalmente.
Basandosi su questa storia, il termine “Navy Strength Gin” è nato negli anni ‘90 come strategia pubblicitaria per la vendita dei distillati ad alta gradazione. La possibilità di utilizzare questa dicitura sulle bottiglie di gin è stata poi regolamentata vietandone l’utilizzo sui gin al di sotto del 57,1% vol.
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Antica disciplina Spagirica nei cocktails
La Spagiria è un’antica disciplina alchemica nata nel XV secolo il cui nome deriva da due parole del greco antico: páō, (che significa “separare” o “dividere”) e ageiro (che significa “riunire”).
Il termine fu coniato da Paracelso, un medico svizzero, ritenuto il padre della Spagiria, che basò i suoi studi innovativi sulla convinzione che la salute è il risultato di un perfetto equilibrio di forze sottili e che le malattie sopraggiungono quando si formano delle alterazioni alle frequenze dei campi magnetici che compongono le cellule dell’organismo.
La Spagiria si basa su n particolare metodo di creazione delle tinture madri: vengono estratte le frequenze energetiche delle piante e creati dei prodotti fitoterapici a base d’acqua in grado di trasportare le informazioni frequenziali delle piante laddove si sia manifestato un disequilibrio per ripristinare quindi la funzionalità di un tessuto o di un organo.
Il nostro metodo naturopatico Alma Quantum® si basa sull’uso di prodotti spagirici concepiti dai nostri naturopati e creati dai nostri erboristi (la nostra linea Paracelsium) e di particolari macchinari di biorisonanza per trasmettere le frequenze necessarie per armonizzare l’organismo.
In questo articolo approfondiamo il tema della Spagiria con Lara Amantia, naturopata Alma Quantum® e responsabile della formazione della nostra scuola di Naturopatia.Ci puoi spiegare meglio che cos’è la Spagiria?
La Spagiria è una tecnica con cui si applica l’Alchimia, si tratta di una speciale filosofia, un tentativo linguistico per interpretare la natura, è la trasmutazione della natura secondo natura. Nella Spagiria la pianta è un’unità terapeutica che corrisponde all’individuo umano su cui agisce. La dialettica fondamentale dell’universo è energia e materia, da questo concetto parte tutta la filosofia alchemica che trova la sua applicazione nella Spagiria.
La parola “Alchimia” sembra derivare da “Al” (Dio) e “Chimia” (Chimica) e quindi la “Chimica di Dio”, che dona a questa materia una connotazione, persa nella moderna farmacologia, di spiritualità nella materia.
L’Alchimia sembra nascere nell’antico Egitto dove veniva insegnato l’Ermetismo nei Templi di Memphis e di Thebe. Dalle opere di Zosimodi Panopoli (300 d.c.), si apprende che l’Alchimia era esercitata sotto il controllo del Re e dei Sacerdoti e che era vietato dalla legge scrivere sull’argomento, perché l’insegnamento dei segreti alchemici era affidato solo a pochi adepti e relegato solo alla trasmissione orale. Fu la cultura araba che portò in Europa lo studio e la pratica dell’Alchimia e Paracelso, con le sue opere, rese questo studio accessibile a tutti.
L’Alchimia studia le cause dello squilibrio cercando di debellarlo alla fonte, utilizza il pensiero pre-logico che è più ricco di quello logico in quanto comprende l’uso dell’analogia, dei simboli e degli archetipi che sono le forme immateriali che causano la materialità.
Esistono delle corrispondenze analogiche tra uomo e universo e quindi fra uomo, piante e pianeti. In passato non si conoscevano tutte le evidenze che invece la scienza moderna ha confermato: gli antichi, pur non essendo capaci di spiegare concretamente il fondamento della relazione che esisteva fra uomo e piante, per analogia già conoscevano l’azione che le piante, in un futuro più lontano, è stata poi dimostrata avere sul corpo.
In Alchimia la pianta si dice essere “segnata” da una funzione che corrisponde ad un pianeta, questo vuol dire che la pianta stessa porta con sé i valori archetipali ed analogici del pianeta e della sua funzione.
Per esempio Marte, Dio della guerra, si associa al sangue, al colore rosso, alla collera e alla rabbia. Il ferro tradizionalmente è collegato a Marte, specialmente a causa del colore rosso del suo ossido. Il ferro è collegato all’emoglobina del sangue e usato con successo in casi di anemia dove prevale il pallore, ossia la mancanza di colore rosso.
I criteri di attribuzione di una forma planetaria ad una pianta o ad un organo sono stati non solo il colore, ma anche la forma della pianta, il suo odore, il suo biotipo, l’habitat di crescita e altri fattori ancora.
Quali sono le differenze tra tintura madre fitoterapica e tintura madre spagirica?
La tintura madre fitoterapica ha un’alta concentrazione di principi attivi perché la sua estrazione permette di mantenere inalterato il suo fitocomplesso, cioè l’insieme dei suoi principi attivi che lavorano sull’individuo in maniera sinergica a discapito del contenuto vibrazionale e di oligoelementi.
La tintura madre spagirica invece contiene meno principi attivi, ma conserva in sé il contenuto vibrazionale e il contenuto di oli essenziali presenti in alcune piante composto da oligoelementi e minerali atti a modificare organicamente la struttura corporea. Questo vuole dire che la tintura madre spagirica agisce su tutti i livelli: fisico, mentale ed emozionale.
Quali caratteristiche deve avere un prodotto spagirico?
La lavorazione spagirica è complessa e composta da varie fasi molto spesso sconosciute, soprattutto a chi affronta questa materia sui libri. La Spagiria viene tramandata oralmente e con l’apprendimento empirico guidato da un alchimista che forma i nuovi alchimisti.
Il rimedio spagirico contiene in sé le caratteristiche biochimiche del rimedio fitoterapico e le proprietà elettromagnetiche proprie del sistema omeopatico. Queste due caratteristiche lavorano sinergicamente: alti dosaggi riducono l’azione elettromagnetica a vantaggio di quella biochimica, bassi dosaggi inducono un effetto più sottile a discapito della risposta biochimica.
Ogni prodotto spagirico racchiude in sé i quattro elementi (Acqua, Terra, Fuoco, Aria) e i tre principi primari alchemici (Zolfo, Sale e Mercurio) che si fondono insieme e creano una sola natura.
I quattro elementi non sono concetti astratti, ma vere e proprie forze vitali con una loro coscienza e, come vere e proprie energie, sono pronti ad interagire con il nostro Essere per completarlo. La connessione alle Forze Vitali (come i quattro elementi) deriva da antiche tradizioni pagane, precedenti all’arrivo della religione cattolica, che erano profondamente legate al culto della Natura.
I tre Principi Primari compongono l’essenza di ogni essere vivente (umano, animale o vegetale) e se vogliamo lavorare sul riequilibrio dell’organismo attraverso l’uso delle piante, è necessario conoscerle approfonditamente per poi considerare tutti questi principi contemporaneamente, sia per la preparazione di un prodotto spagirico sia per la sua assunzione.
Come vengono scelte le piante per preparare un rimedio spagirico?
In Spagiria non c’è coltivazione, la raccolta viene fatta esclusivamente su piante spontanee, cresciute nel bosco o nei campi, nel loro perfetto habitat che rispecchia il terreno su cui si forma lo squilibrio.
L’alchimista deve passeggiare per i boschi in stato di imparzialità seguendo la Leggenda del Coltello D’Oro, che non vuol dire che l’alchimista debba effettivamente avere un coltello d’oro per raccogliere le piante, ma che le sue mani rappresentano questo simbolo che corrisponde a Marte, personificazione dell’azione imparziale che sta dietro alla raccolta. L’alchimista deve dunque sapere a cosa serve una determinata pianta e a cosa corrisponde il terreno su cui la raccoglie, soprattutto nel momento della raccolta stessa.
Oltre ciò, ogni pianta ha un periodo, un giorno ed un’ora adeguata per poter essere raccolta che corrispondono analogicamente alla funzione primaria di quella pianta. Ad esempio la melissa (pianta Venusiana) deve essere raccolta di venerdì (giorno di sua massima crescita) e nell’ora di Venere che deve essere calcolata ogni anno.
Secondo la filosofia alchemica classica, le erbe sono sotto il dominio energetico di uno o più astri che detengono un loro valore simbolico in analogia con la pianta stessa. I criteri di attribuzione di una forma planetaria ad una pianta o ad un organo, sono stati il colore, ma anche la forma della pianta, il suo odore, il suo biotipo, l’habitat di crescita.
Ogni preparazione spagirica contiene la forza guaritrice delle piante usate, sfrutta la loro potenza medicinale ed integra le varie componenti dopo un processo di separazione e di purificazione. Ogni pianta usata per le preparazioni spagiriche ha un suo carattere con cui entrare in relazione, è considerata nella sua interezza e nella sua individualità che analogicamente deve corrispondere alla persona sulla quale si agisce.
Parlaci della linea Paracelsium.
I nostri prodotti Paracelsium uniscono l’antica conoscenza alchemica con le moderne tecniche di biorisonanza. Le tinture madri spagiriche preparate secondo il sistema alchemico, diventano base attiva per assorbire frequenze specifiche che ne potenziano e ne indirizzano l’effetto dove è necessario. Tali frequenze vengono attivate da nostri specifici macchinari di biorisonanza.
La biorisonanza è una tecnica di indagine e riequilibrio energetico e funzionale basata sull’attivazione di particolari frequenze che attivano specifici processi attraverso appositi macchinari. Come la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein insegnano, tutto ciò che esiste è energia e quando l’energia si manifesta in un modo specifico assume una frequenza specifica corrispondente a quella manifestazione. Quando si attiva una frequenza che corrisponde ad una manifestazione, si attiva nello stesso tempo quella manifestazione.
Facciamo un esempio: attivare la frequenza corrispondente all’organo fegato vuol dire, contemporaneamente, attivare l’organo stesso. Lo stesso meccanismo è valido anche quando si tratta di tessuti, di funzioni o di singole molecole. In pratica, trovando le giuste frequenze, si può interagire con qualunque processo, organo o tessuto dell’organismo.
Nei prodotti Paracelsium, specifiche frequenze vengono memorizzate in un liquido che è di per sua natura già attivo: stiamo parlando delle tinture madri spagiriche. Come ho spiegato prima questi prodotti fitoterapici vengono realizzati attraverso il metodo alchemico che, in sequenza, depura e potenzia l’estratto in armonia con i cicli della Natura. Secondo le nostre ricerche, questi tipi di tinture madri sono idonee a mantenere in vibrazione la frequenza con cui vengono caricate attraverso i nostri macchinari di biorisonanza.
La combinazione dell’effetto terapeutico degli estratti spagirici con le frequenze attivate attraverso la biorisonanza raggiunge una specificità tale che si può creare un messaggio energetico ed indirizzarlo laddove ci siano dei disequilibri nell’organismo.
I nostri prodotti Paracelsium
I prodotti Paracelsium sono divisi in due linee distinte, corrispondenti a due modi diversi di sinergizzare le piante con le frequenze:
LE QUINTESSENZE: la singola pianta in estratto spagirico viene caricata con le frequenze che esaltano tutte le caratteristiche della pianta stessa consentendo di ottenere il massimo risultato “terapeutico” dell’estratto.
GLI ELIXIR: gli estratti spagirici vengono miscelati per raggiungere uno specifico riequilibrio quindi vengono caricati con le frequenze necessarie per ottenere quello scopo. All’interno degli elixir è stato messo a punto un altro gruppo di prodotti: i PRIMO AUXILIUM. Questa linea comprende prodotti di pronto soccorso ad assunzione sub linguale per ottenere effetti immediati su casi acuti come per esempio mal di testa, problemi digestivi, insonnia, mal d’auto.
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Caffè: i 10 migliori del mondo
Caffè: 10 dei migliori del mondo, di sicuro i più costosi. Alcuni si conoscono, come il Kopi Luwak, altri meno. Ecco quali sono e i prezzi
Si dice che il fattore decisivo per un caffè da veri impallinati sia la freschezza dei chicchi. Ce ne sono di buon livello e di qualità esoterica.
In pratica, sono di buon livello tutte le bevande che vediamo al supermercato. Ma con il rischio che, stazionando da tempo sugli scaffali, abbiano perso in freschezza. Qualità esoterica significa che i chicchi sono raccolti e selezionati a mano.
Crescono ad altitudini elevate per sviluppare una dolcezza naturale. Con periodi di coltivazione rallentati e lunghi per incrementare l’acidità e aggiungere aromi di solito non associati al caffè come lo conosciamo. Fragola, lampone, tè.
È la quarta generazione della famiglia Aguirre a beneficiare dell’incredibile balzo di prezzo messo a segno negli ultimi anni da questo caffè. Frutto, probabilmente, dell’imbarazzante quantità di premi razziati dall’azienda, collocata sulle montagne di Huehuetenango, in Guatemala.
Coltivato a oltre 2000 metri di altitudine, il caffè passa attraverso le maglie rigide del “Peak Performance Process”. Un lungo e macchinoso processo che prevede la selezione e la separazione manuale dei chicchi. Quindi la macinazione e la fermentazione. E da ultimo l’ammollo in acqua. È così che il caffè sviluppa il corpo robusto e il sapore, dolce e complesso.
Oltre al sapore e agli aromi, anche il prezzo di questi caffè è unico. Oggi vogliamo presentarvi 10 tra i migliori caffè migliori del pianeta, di sicuro i più costosi. E mentre un paio, come il Kopi Luwak o il Jamaica Blue Mountain, non sono sconosciuti agli appassionati, gli altri, spesso coltivati su microscopica scala, si conoscono meno.
Prezzo: sui 1000/1100 dollari al chilo
Il nome suonerebbe meno intrigante se fosse subito chiaro che si riferisce agli escrementi dell’elefante. Viene infatti ricavato in modo simile al Kopi Luwak (ne parliamo tra poco, il tema degli escrementi, ahinoi, è ricorrente).
Il processo di produzione del Black Ivory inizia con i chicchi di caffè Arabica consumati dagli elefanti nel nord della Thailandia. Da erbivori quali sono, gli elefanti apportano un enzima particolare. Inoltre, la lentissima digestione conferisce il sapore distinto e rotondo del caffè.
Il prezzo elevato dipende soprattutto dalla difficoltà di reperire i semi. Visto che gli elefanti sono soliti mangiarne la maggior parte, e nascondere gli altri in luoghi difficili da individuare.
Prezzo: sui 1000 dollari al chilo.
3) Kopi Luwak
Una notorietà esagerata, addirittura famigerata. Kopi Luwak è il caffè indonesiano tostato dopo essere stato mangiato, digerito e ehm… espulso dallo zibetto della palma, goloso dei semi della cosiddetta pianta del caffè rosso. Dunque, il processo di fermentazione del caffè non potrebbe essere più naturale, considerato che avviene all’interno del tubo digerente dell’animaletto esotico, parente alla lontana della mangusta.
Le caratteristiche aromatiche uniche del caffè non si possono riprodurre in altro modo. Per chiarezza: i semi, una volta espulsi, vengono puliti (ovviamente), arrostiti e confezionati. Le note aromatiche confermate anche dagli esperti italiani che lo hanno provato, ormai si trova anche da noi, sono quelle delicate della prugna e della rosa.
Prezzo: tra 700 e 900 dollari.
La fondazione dell’azienda, che oggi vanta una produzione molto ampia, risale al 1835. Nel tempo, la famiglia che si è occupata della gestione (una vera dinastia, inclusi due presidenti colombiani), ha portato il caffè Ospina a essere uno dei più apprezzati del mondo.
Il prodotto di punta, coltivato come gli altri sopra i 2000 metri di altitudine negli altopiani vulcanici della provincia di Antioquia, in Colombia, si chiama Gran Cafe Premier Grand Cru. Un caffè con aroma di nocciola e profumi di albicocca, corpo vellutato e sapori di mandorle e cioccolato.
Prezzo: tra 300 e 1.500 dollari al chilo
La battuta di Napoleone è passata alla storia: “La sola cosa buona di Sant’Elena è il caffè”. L’ex imperatore di Francia usò il suo triste confino per diventare un coltivatore, visto che insieme all’arte della guerra il caffè fu una delle sue passioni.
I chicchi provenienti da Sant’Elena, isola sperduta nell’oceano Atlantico, ad almeno 2 mila chilometri dalle coste africane, sono ancora oggi prelibati. A renderli così particolari provvedono le note caramellate con un irresistibile retrogusto di agrumi. Dicono gli esperti che hanno avuto la fortuna di degustarli. Ma è evidente che l’incidenza del trasporto, alla voce costi, si fa sentire.
Prezzo: sui 220/250 dollari al chilo.
I 22 chili raccolti ogni anni, non un chilo di più, non uno di meno, sono coltivati in una fattoria nel sud della Colombia sotto la supervisione di un agronomo. Il caffè è lavorato mediante frantumazione, essiccazione al sole e fermentazione controllata.
La sola persona autorizzata a tostarlo è un torrefattore di Melbourne, considerato un virtuoso del settore. Dalla sua torrefazione, chiamata Proud Mary, dipendono aroma, sapore e corpo del pregiato caffè. Le note di degustazione parlano di pesca e mango, un corpo forte ma cremoso, attenuato da un un delicato aroma floreale.
Prezzo: sui 200/220 dollari al chilo.
Il caffè Jamaica Blue Mountain nasce per una decisione presa da un re francese nel XVIII secolo. Nel 1723, Re Luigi XV inviò tre piante di caffè alla colonia francese di Martinica, 1900 km a sud ovest della Jamaica. Cinque anni dopo, nel 1728, Sir Nicholas Lawes, governatore della Jamaica, ricevette in dono una pianta di caffè dal governatore della Martinica. Il resto è storia…
Quella singola pianta di caffè Arabica ha permesso che il mondo conoscesse un’altra squisita varietà di caffè. Quella pianta infatti venne curata e da essa nacque una piantagione. Nove anni dopo si ebbe la prima esportazione di caffè, nonché la nascita dell’industria giamaicana del caffè.
Le piante della varietà arabica amano il terreno ricco di azoto e fosforo delle scoscese alture delle Blue Mountains. Situate a nord di Kingston, sulla parte orientale dell’isola, le Blue Mountains raggiungono un altitudine di 2350. Le piante di caffè crescono rigogliose nel fertile terreno vulcanico, bagnato da piogge regolari e, cosa ancora più importante, protetto dal sole cocente dalla coltre di nebbia dell’isola. E’ l’insieme di tutti questi fattori a consentire lo sviluppo di un caffè caratterizzato da un aroma e da una dolcezza incredibili, un corpo cremoso e lievi note acidule.
Il caffè, per poter essere chiamato Jamaica Blue Mountain, deve essere coltivato ad altitudini comprese tra i 1000m ed i 2000m nei distretti di Portland, St. Andrew, St. Mary e St. Thomas, per una superficie totale di soli 6000 ettari.
A sottolineare la sua scarsità ed esclusività, il Jamaica Blue Mountain è praticamente l’unico caffè al mondo ad essere confezionato in tradizionali barili di legno, marchiati a fuoco, invece che nei sacchi di juta.
La produzione annuale è infatti di solo 500 tonnellate, una quantità davvero modesta per gli standard mondiali, equivalente a meno dello 0,05% della produzione colombiana. Il risultato è quello che in molti considerano il miglior caffè del mondo: lo “ champagne del caffè”.
Il nostro Blue Mountain è prodotto dalla Wallenford Coffee Company, il più grande coltivatore di Jamaica Blue Mountain e Jamaica High Montain Coffee. Si pensi che questa compagnia controlla circa 2000 ettari di terra della Jamaica Blue Mountain Coffee.
Inoltre la Wallenford è conosciuta anche per il grande lavoro di supporto agli agricoltori locali, fornendo un concreto aiuto alle loro fattorie ed alle comunità circostanti, con infrastrutture ed incentivi per aiutarli a coltivare un raccolto che sia redditizio per loro ed in grado di supportare le loro famiglie.
iamaicano cresce sulle alture vulcaniche a nord di Kingston, ad altezze che oscillano tra 1500 e 3000 metri. È la grande “montagna blu” come la chiamano da quelle parti. L’aria gelida in arrivo dal Mar dei Caraibi ritarda lo sviluppo dei semi.
Una coltivazione lunga poco meno di un anno, contro i 6 mesi necessari di solito, responsabile del bouquet aromatico ricco e complesso che ha reso famoso anche in Italia il caffè giamaicano.
Dopo raccolta e tostatura, prima della conservazione nei bellissimi barili in legno di quercia, al pari del rum dei Caraibi, il caffè assume sapori generosi in acidità, con aromi di tabacco e frutta secca. Soprattutto, si affranca completamente dal tipico retrogusto amaro che affligge troppi caffè, anche di livello.
Prezzo: sui 200 dollari al chilo.
Forse ”l’hacienda” più premiata del mondo per i suoi caffè, coltivati nella regione di Boquete a Panama. Sono ricavati da una famiglia di piante antiche della varietà botanica “Geisha”, che crescono a 1.500 metri sul livello del mare.
Il prezzo molto elevato dipende da diversi fattori. L’offerta minima, addirittura razionata in alcune annate, la breve stagione della coltivazione e il costo elevato della manodopera. Ma l’aggettivo usato più spesso per descrivere questo caffè è ineguagliabile. C’è poi la leggerezza, quasi insensata vista la forza del sapore, inconfondibilmente agrumato.
Prezzo: sui 180 dollari al chilo.
Altro caffè guatemalteco, come il Finca El Injerto, eccezionale nel corpo e nella cremosità. Un tipico caffè invernale dalle note di noce e cioccolato, che si adatta bene a ogni metodo di estrazione: moka, filtro, espresso o aeropress.
La particolarità del caffè consiste nella provenienza dei chicchi, che non sono monorigine, pur arrivando dalla stessa fattoria dislocata tra i 1.500 e i 2.000 metri. Proprietà del leggendario coltivatore Jose Roberto Monterroso a Jalapa, Mataquescuintla.
Prezzo: sui 1.00 dollari al chilo.
10) Finca Los Planes
Nella fattoria da 70 ettari a 1.500 metri di altitudine, che appartiene come molte altre a una dinastia familiare, si è coltivata a lungo soltanto la varietà Typica. Un’Arabica abbastanza ordinaria.
Le cose, per l’azienda di El Salvador, sono cambiate nel 1996. Quando si è passati a una produzione meticolosa di varietà più pregiate, quali Bourbon e Pacamara. Le note di degustazione, unico caso in questa lista, scomodano addirittura il mandarino. Oltre a zucchero di canna e caramello.
Prezzo: sugli 80 dollari al chilo.
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Sicurezza Alimentare, il Ghiaccio non e da meno, rischi e pericoli di contaminazione
Che differenza c’è fra ghiaccio alimentare e non alimentare ?
Come avvengono le contaminazioni ?
È vero che il ghiaccio uccide tutti gli agenti patogeni ?
Anche un cocktail on the rocks può diventare indigesto se il ghiaccio utilizzato non è sano perché contaminato o perché non alimentare.
Il ghiaccio alimentare è quello preparato con acqua destinata al consumo umano, che è quell’acqua, ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 31/2001 in recepimento della direttiva comunitaria 98/83/CE, che, oltre a essere salubre e pulita, non deve contenere “microrganismi e parassiti, né altre sostanze, in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un pericolo per la salute umana”. Il ghiaccio preparato con quest’acqua e giudicata potabile dall’ufficio sanitario, alla fusione, spiega l’ Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare, deve ridursi in acqua altrettanto potabile, diversamente si parlerà di ghiaccio non alimentare o non commestibile.
Uso illecito del ghiaccio non alimentare
Emerge in questo contesto un dato che fotografa una realtà con bar, discoteche, ristoranti, alimentari e operatori del settore turistico-ricettivo che nel 90% dei casi producono ghiaccio non alimentare: “L’uso lecito di tale ghiaccio” spiega l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare “è consentito solo se esso viene utilizzato per raffreddare cibi o bevande, ma senza che questo venga mai a contatto diretto con gli stessi. È infatti del tutto vietato e dunque illecito, proprio perchè potenzialmente pericoloso per la salute, l’utilizzo di tale ghiaccio non alimentare attraverso il contatto diretto di alimenti per la sua conservazione (ad es. per il pesce) o per la preparazione di bevande alcoliche o analcoliche. Spesso si sottovaluta che nelle bevande il ghiaccio viene direttamente ingerito e, nel caso in cui trattasi di ghiaccio non commestibile-non alimentare, tutti i rischi collegati alla sua impurità vengono trasferiti direttamente nel fruitore finale”.
In linea di massima, secondo l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare, non si tratterebbe di “circostanze fraudolente” quanto di una cattiva conoscenza del mondo del ghiaccio: “Ad esempio non basta semplicemente considerare la potabilità dell’acqua in ingresso nel macchinario per la produzione del ghiaccio: dalle analisi prodotte si riscontra che, sebbene l’acqua in entrata sia potabile, il ghiaccio una volta fuso e ritornato in forma liquida, non è più potabile divenendo di fatto illegale e non salubre. Ciò è certamente dovuto ad una errata manutenzione del macchinario che non viene sottoposto alle procedure conformi, come pulizia, manutenzione generica, sostituzione dei filtri e più in generale la corretta applicazione del manuale HACCP e della prassi di conservazione e somministrazione degli alimenti”.
Contaminazioni
Ai primi di settembre il Ministero della Salute ha, ad esempio, richiamato per la seconda volta in un anno un lotto di ghiaccio a cubetti, prodotto da una ditta italiana specializzata in ghiaccio alimentare a cubetti e tritato, a causa della forte presenza di Escherichia coli, un microrganismo dei coliformi fecali di cui si conoscono ceppi patogeni per l’uomo.
Contro le contaminazioni è, inoltre, fondamentale movimentare il ghiaccio seguendo alcune regole: “Il ghiaccio” spiega l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare nel suo Manuale di corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare “deve sempre essere movimentato utilizzando attrezzi dedicati (palette, cucchiai, pinze in materiali idonei al contatto con gli alimenti) e sottoposti a lavaggi al fine di evitare contaminazioni crociate con altri alimenti contenenti allergeni e/o sviluppi microbici. Il ghiaccio caduto sul pavimento o su superfici non pulite deve essere prontamente eliminato. Durante l’utilizzo gli operatori devono sempre rispettare le corrette prassi igieniche per la manipolazione degli alimenti (igiene delle mani, igiene del vestiario, ecc.) al fine di evitare contaminazione microbiologiche e particellari”.
Pericoli per il ghiaccio
I pericoli per il ghiaccio alimentare sono di tipo fisico, chimico e biologico. I primi, spiega il manuale, sono rappresentati da corpi estranei che, dopo aver attraversato l’apparato gastrointestinale, vengono espulsi generalmente senza danni, anche se può capitare che possano causare soffocamento, tagli e rottura dei denti se bloccati nella o espulsi dalla cavità orale o, ancora, malessere generalizzato, vomito, “sensazione di disgusto e stato di apprensione a causa della sola rilevazione nell’alimento, senza alcuna ingestione, da parte consumatore”, portando in taluni casi a interventi endoscopici per la loro estrazione o a perforazioni qualora entrino nell’apparato digerente.
I pericoli chimici sono collegati alle acque utilizzate e ai materiali di imballaggio a diretto contatto con il ghiaccio confezionato. I pericoli biologici, infine, riguardano la contaminazione da microrganismi come batteri, funghi, lieviti, virus e protozoi e da infestanti come insetti volanti e striscianti, roditori, ragni e volatili.
Tipologie di ghiaccio
A seconda del suo utilizzo il ghiaccio viene prodotto a cubetti pieni o cavi, tritato, a scaglie e a lastre. I cubetti, spiega il manuale, vengono generalmente utilizzati per refrigerare le bevande in bottiglia o per “inserimento diretto in bevande di varia tipologia” e destinati, quindi, al settore della ristorazione, alberghiero, dei bar e dell’intrattenimento – club e discoteche – oltre che agli eventi organizzati.
Il ghiaccio a scaglie viene, invece, utilizzato per la refrigerazione degli alimenti, delle bevande in bottiglia e del pesce – questa tipologia di ghiaccio è, infatti, largamento impiegata nel settore ittico. Il ghiaccio granulare, infine, è utilizzato per la refrigerazione del pesce, la preparazione di cocktail, l’esposizione di alimenti per la vendita e il consumo, il raffreddamento in alcuni processi industriali produttivi (carni e panificazione).
Usato come refrigerante il ghiaccio è a contatto diretto con gli alimenti che vengono refrigerati e mantenuti a temperatura del ghiaccio fondente. “Le acque di fusione” spiega il manuale “hanno un effetto di lavaggio dei prodotti ma persistono nel prodotto finito, anche se in quantità minime, fino al momento della vendita/trasformazione. Eventuali contaminanti sono pertanto, almeno parzialmente, portati nell’alimento o possono in questo svilupparsi (batteri). L’esempio è rappresentato dall’utilizzo del ghiaccio nel settore ittico. I prodotti così refrigerati sono in genere sottoposti a cottura prima del consumo”.
Il ghiaccio può essere, quindi, utilizzato come ingrediente e refrigerante. In questo caso viene posto direttamene nell’alimento in fase di lavorazione o somministrazione, diventandone un ingrediente: “Eventuali contaminanti presenti nel ghiaccio” spiega il manuale “sono pertanto portati nell’alimento. Gli esempi sono: ghiaccio utilizzato nei cocktail o inseriti nelle bevande nel momento della somministrazione e il ghiaccio utilizzato in alcuni processi industriali, ad esempio nelle carni. Nel caso di cocktail e bevande il ghiaccio viene, in parte o totalmente, ingerito dal consumatore senza alcun ulteriore trattamento al prodotto stesso”.
Tipologie di contatto
Contatto indiretto si ha quando il ghiaccio è utilizzato come refrigerante per alimenti contenuti in confezioni sigillate o non sigillate, ma in questo caso non si pensa a un contatto con gli alimenti, così il manuale, che spiega: “Eventuali contaminanti del ghiaccio non dovrebbero raggiungere gli alimenti, se non in caso fortuito/accidentale (ad esempio durante la movimentazione o tramite la formazione di gocce nella parte esteriore delle confezioni). Gli esempi sono: bottiglie sigillate immerse in ghiaccio per la refrigerazione e vendita, bottiglie lasciate nel ghiaccio dopo apertura come nel caso del vino e piatti composti e pronti posti al di sopra di ghiaccio per l’esposizione alla vendita e consumo”.
Miti e fake news sul ghiaccio
Sull’universo ghiaccio persistono fake news e falsi miti. Li ha riuniti, fornendo l’esatta risposta, l’Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare.
Il processo di congelamento distrugge tutti gli agenti patogeni
FALSO. Batteri e virus possono sopravvivere nel ghiaccio ed in alcuni casi possono addirittura moltiplicarsi.
Se sono presenti degli agenti patogeni nel ghiaccio questi vengono uccisi quando il ghiaccio è aggiunto a bevande con forti contenuti di alcool
FALSO. Uno studio fatto dall’Università del Texas ha dimostrato che Salmonella, E. Coli e Shigella sono sopravvissuti in bevande con cola, scotch, acqua e l’85% di tequila.
Il ghiaccio è solo acqua congelata
FALSO. C’è molta differenza nella qualità sanitaria del ghiaccio a seconda del produttore. Il ghiaccio è acqua congelata, ma il processo di congelamento non distrugge gli agenti patogeni che possono essere presenti nell’acqua che viene utilizzata per la produzione di ghiaccio. Inoltre altri agenti patogeni si possono aggiungere nel processo di produzione del ghiaccio quando le superfici ed i filtri della macchina del ghiaccio non vengono puliti e manutenuti con diligenza e con la necessaria frequenza. Inoltre il ghiaccio può venire a contatto con altri agenti contaminanti se i contenitori dove sono stoccati i cubetti non sono adeguatamente puliti e protetti da agenti infettanti. È sempre bene ricordare che il ghiaccio va a contatto con altri alimenti e diventa parte di essi (come per es. il ghiaccio nelle bevande).
Tutto il ghiaccio confezionato è sicuro e non viene toccato da mani umane
FALSO. Ogni anno in Italia milioni di kg di ghiaccio vengono confezionati in siti non adeguati e con processi non controllati. Spesso il processo di confezionamento avviene manualmente ed è possibile il contatto del ghiaccio con le mani dell’operatore ed altre sorgenti di contaminazione.
Il ghiaccio è regolato come tutti gli altri cibi
FALSO. Sfortunatamente non è ancora così. Sebbene il ghiaccio sia considerato un alimento a tutti gli effetti non è ancora regolato da un manuale di corretta prassi operativa e non è inserito nei manuali di HACCP dei locali in cui viene prodotto ed utilizzato. Solo recentemente in Italia si è preso atto di questa grave lacuna nel sistema di sicurezza alimentare ed è questo l’obiettivo che si propone il manuale di corretta prassi operativa per i produttori di ghiaccio, sia per il consumo locale, che per la vendita.
Abbiamo parlato di:
Decreto legislativo 31/2001 Documento
Direttiva 98/83/CE Documento
Istituto Nazionale Ghiaccio Alimentare Website
Ministero della Salute Website | Twitter | Facebook | YouTube
Manuale di corretta prassi operativa per la produzione di ghiaccio alimentare Documento
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Distilleria Mars
L’azienda Hondo Shuzo, proprietaria della distilleria, è nata nel 1872 a Kogoshima come industria tessile. Nel 1909 entrano nel mercato dei liquori con l’acquisizione della licenza per la produzione di shochu e per oltre 50 anni ampliano il loro portfolio aggiungendo mirin, sake, umeshu (liquore di prugna) e vari altri tipi di liquore.
La storia del whisky in Hondo inizia nel 1949 quando l’azienda ne acquista la licenza. Per i primi 10 anni è probabile che la Hondo producesse whisky di terzo grado (a quei tempi in Giappone il whisky e le tasse si dividevano per 3 gradi) e che fosse in realtà un blend di poco whisky e altri “componenti” e aromi, produzione non di altissima qualità ma del tutto legale nel Giappone del dopoguerra.
La vera storia del whisky in Hondo e poi nella distilleria Mars Shinshu inizia nel 1960 quando la Hondo decide di iniziare a fare whisky seriamente in una propria distilleria di malto. La figura chiave dell’azienda in questo settore viene identificata in Kiichiro Iwai, un esperto nella distillazione continua e con una base di conoscenza nella distillazione discontinua e nella produzione di whisky. Non tutti sanno infatti che 40 anni prima Iwai era il capo (oltre che vecchio compagno di scuola) di Masataka Taketsuru alla distilleria Settsu Shuzo e che Masataka una volta tornato dal suo viaggio in Scozia gli passò il suo famoso “blocco degli appunti” dove erano annotati tutti i particolari sulla produzione di whisky e sugli alambicchi scozzesi. Seppur 40 anni dopo Iwai riprese le note di Taketsuru e disegnò degli alambicchi basati sui suoi appunti inoltre, calibrò il processo di distillazione per avere un tipico distillato corposo e affumicato, degno di una distilleria scozzese.
Nel 1985 la Hondo acquista un nuovo sito in Shinshu (prefettura di Nagano), ai piedi del monte Komagatake. Qui viene costruita la nuova distilleria Mars Shinshu e vengono spostati i vecchi alambicchi usati da Iwai (due piccoli pot stills da 500 litri). La Hondo decide inoltre di cambiare il tipo distillato prodotto passando ad uno più leggero che incontrasse di più il palato dei giapponesi.
Negli anni ’80 il periodo fortunato chiamato ji-whisky sorride alla nuova distilleria e la produzione decolla ma non per molto, nel 1989 infatti la riforma delle tasse in Giappone penalizza i piccoli produttori e i prezzi del whisky di secondo grado di Mars decollano, arrivando a costare più di quelli scozzesi di importazione. È un duro colpo per la Hondo che nel 1992 decide di non produrre più whisky.
Nei successivi 19 anni non si produrrà più distillato in Shinshu, occasionalmente dai suoi alambicchi uscirà un po’ di brandy ma la distilleria seppur non demolita viene messa in naftalina.
Arriviamo al 2008 quando il boom dell’highball e l’inizio del boom del whisky giapponese aumentano in modo sensibile le richieste e i magazzini di Shinshu vengono riaperti, la produzione di whisky in distilleria riparte però nel 2011 con nuovi responsabili e alambicchi che vengono si cambiati ma sono l’esatta replica degli originali di Iwai.
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ODK AL SIGEP 2023
L’azienda sarà presente all’appuntamento di Rimini, dal 21 al 25 gennaio, con i prodotti di punta dei suoi marchi per il mondo delle bevande e della caffetteria
Finalmente in arrivo, dopo 25 mesi dall’ultima edizione in presenza, l’appuntamento professionale tra i più importanti dedicati ai settori del gelato, della pasticceria, della panetteria, della cioccolateria e del caffè: Sigep 2023. Da oltre 40 anni fiera di riferimento per le innovazioni dell’intero settore, la kermesse fornisce una panoramica completa di tutte le novità del mercato: materie prime, ingredienti, macchinari e molto altro. Punto di incontro per lo scambio di idee, tendenze e visioni presentate ogni anno dai più importanti esperti e opinion leader del settore, il Sigep è un appuntamento immancabile, all’insegna del made in Italy e dell’eccellenza globale, cui Orsadrinks ha deciso con entusiasmo di tornare a presenziare.
L’evento sarà infatti per l’azienda un’importante occasione per tornare a incontrare i player principali del comparto e per presentare al mercato i prodotti di punta dei vari brand, da ODK a Stillabunt, passando per Malafemmena, e per esporre le novità più interessanti.
All’interno dell’ampia gamma di Orsadrinks c’è infatti un’interessante selezione di prodotti che ben si prestano ad applicazioni non solo all’interno del mondo della caffetteria, ma anche della pasticceria in senso più lato.
Gli ultimi anni hanno visto infatti una significativa crescita ed evoluzione dei prodotti del brand dedicati alle bevande e al mondo dei baristi e delle caffetterie. Orsadrinks è una realtà che cresce insieme ai propri clienti: questa sinergia, che da sempre caratterizza la visione e i rapporti dell’azienda, costituisce spesso uno spunto per sperimentare idee e soluzioni innovative, dando vita a nuovi utilizzi per prodotti nati con uno scopo differente.
Accanto ai prodotti Creamy, per esempio, ormai un punto di riferimento per i baristi di tutto il mondo, troviamo i Fruity Mix, puree di frutta di altissima qualità ideali per la preparazione di frullati e smoothies, ma anche cioccolate calde, frappè, chai tea… e molto altro!
Prodotti che, come tutte le soluzioni Orsadrinks, si distinguono per l’attenzione da sempre rivolta dall’azienda alla qualità e alla selezione delle migliori materie prime, prediligendo coloranti naturali e cercando di offrire anche prodotti senza zuccheri aggiunti, gluten free e dairy free, per incontrare i gusti e le esigenze di tutti i clienti.
Per scoprire tutto l’appuntamento è a Rimini, dal 21 al 25 gennaio 2023 !
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Il Paloma tra storia e ricetta IBA
Altro che Margarita! Il drink a base tequila più diffuso e amato in Messico è il Paloma.
Che spopola ormai da un paio d’anni anche in Italia. E che ha conquistato i clienti di tutto il mondo. Non a caso, dal 2020 fa parte della lista IBA.
I bevitori più attenti e fedeli di cocktail & co lo sanno bene: l’esplosione di popolarità del Moscow Mule è stata probabilmente il fenomeno sociale da bancone più interessante degli ultimi anni. Ma la carica della novità, ammettiamolo, è ormai terminata da qualche tempo. Ora che anche il baretto a conduzione familiare sotto casa si è ormai dotato di Ginger Beer, sdoganando lo zenzero in alternativa al bianchetto dell’aperitivo e talvolta osando – seppur nell’errore – con cetriolini vari ed eventuali, nell’aria si avverte il desiderio di qualcosa di nuovo. Un’alternativa, una via di fuga, un cocktail da ordinare con un pizzico di spocchia pionieristica al bartender di turno per poi tornare dagli amici, proporre un assaggio collettivo e avviare così una propagazione del verbo via passaparola e hashtag sui social. Ottimo, la soluzione è arrivata: profuma di estate, profuma di Messico e risponde al nome di Paloma.
Secondo la sfera di cristallo che i migliori bartender italiani conservano accanto allo shaker, infatti, nei prossimi mesi ci troveremo a prendere sempre più confidenza con questo drink dagli accenti esotici, colorato quanto basta per fare la sua figura su Instagram e fresco a sufficienza per risultare gradevolissimo anche con l’alzarsi delle temperature. Già, ma quali sono i suoi ingredienti? Tequila, innanzitutto. Che sì, i più chic hanno incominciato a chiamare al maschile, il Tequila, seguendo un certo filone etimologico; ma che tutto sommato può ancora essere citata e ordinata al femminile, senza particolari spargimenti di insulti.
La ricetta, insomma, prevede il o la Tequila, che dir si voglia, ma anche una tonica al pompelmo rosa a tal proposito vi consigliamo la nuova uscita dalla casa cortese “Pink Lady” la soda al pompelmo rosa, completamente naturale, con vero infuso di scorze di pompelmo rosa, sentori floreali dell’ireos e pochi zuccheri, perfettamente bilanciata al palato. Il colore rosa è ottenuto esclusivamente da ingredienti di altissima qualità come il succo di carota nera (in alternativa una spremuta, o all’occorrenza anche un semplice succo, purché adeguatamente diluito), sciroppo d’agave e spremuta di lime. La sua storia, però, al contrario di quelle a loro modo suggestive dei vari Negroni e Moscow Mule, si perde nell’oscura notte delle probabilità mai del tutto confermate. Di certo le radici sono da ricercare in Messico, patria del Tequila, dell’agave e di grandi coltivazioni di pompelmi: per il resto, pare che la paternità del Paloma sia da attribuire a Don Javier Delgado Corona, proprietario del leggendario bar La Capilla della città di Tequila (ma dai), nello stato messicano di Jalisco; e che sia approdato negli Stati Uniti per la primissima volta grazie al visionario bartender Evan Harrison, che lo aveva inserito nella sua drink list battezzata «Popular Cocktails of The Rio Grande».
Il mix di lime e pompelmo, con l’aggiunta di sciroppo d’agave, rendono il tutto estremamente gradevole, provare per credere. Aspro, certo, ma al contempo dolce a sufficienza, e dunque ideale per chi è alla ricerca di un qualcosa da gustare sorso dopo sorso nelle calde notti estive. Alcuni bartender, poi, hanno incominciato a servirlo in bicchieri con il bordo ricoperto da granelli di sale, «rim» in gergo tecnico, con l’obiettivo di dare al tutto più sapidità, e forse di emulare – seppur in chiave decisamente più edulcorata – il tradizionale incontro di Tequila, sale e limone. Morale: il Paloma è pronto a sgomitare non solo per dare un inedito lustro al troppo spesso bistrattato Tequila, ma soprattutto per diventare un nuovo classico di tendenza, in barba al cugino Margarita, al modaiolo Moscow Mule o a quell’eterno tormentone estivo che porta il nome di Mojito. Ecco allora la ricetta, da replicare anche a casa, per sentirsi i trendsetter del momento.
Paloma tra storia e ricettaLa storia
La paternità del Paloma è sconosciuta, anche se è certo che abbia avuto origine nello Stato messicano di Jalisco e che a renderlo celebre sia stato Don Javier Delgado Corona, mitico patron e bartender del locale La Capilla a Tequila. Cocktail fresco e beverino, è di semplice e veloce preparazione.La ricetta Iba
Tecnica:
Build
Bicchiere:
Highball
Ingredienti:
50 ml 100% Agave Tequila
5 ml Succo di lime fresco
Pizzico di sale
100 ml Soda di pompelmo rosa
Garnish:
Fettina di lime
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Moscow Mule, storia di un cocktail che non ha nulla a che fare con la Russia e con il cetriolo
Un nome originale per il cocktail del momento, dalla storia davvero incredibile. Ben lontana dalla Russia e dai… cetrioli
I corsi e i ricorsi della popolarità dei cocktail sono uno degli eterni misteri del bartending, ma ogni tanto capita che salga alla ribalta un drink che al primo sorso zittisce ogni domanda e analisi. Al massimo chiede di ascoltare la sua incredibile storia: è il caso del Moscow Mule, uno dei cocktail più in voga del momento.
E pensare che non è certo un long drink di primo pelo, anzi… Dovrà la sua seconda giovinezza alla riscoperta dello zenzero– esotica piantina di cui ogni giorno si scoprono nuove proprietà – o forse a quel ritrovato gusto per il vintage, fatto sta che alla sua freschezza pochi ormai resistono.
Moscow Mule: un cocktail per nulla sovietico
Chissà, magari è il fascino della Grande Madre Russia a spingervi in mano l’inconfondibile tazza di rame. Peccato che il “mulo di Mosca” non abbia nulla a che fare con il Cremlino, eccezion fatta per il distillato base, la vodka: tutto nacque infatti nel 1941 in un bar di New York, il Chatham, dove due imprenditori disperati si ritrovarono per tentare di risollevare le proprie attività. Al di qua del tavolino John G. Martin, che non riusciva a distribuire negli Stati Uniti la vodka Sminoff, un alcolico ‘sovietico’ ancora poco amato. Dall’altra parte Jack Morgan, proprietario del Cock’n’Bull Tavern in Sunset Boulevard, il locale più cool di Hollywood, che stava cercando di lanciare senza successo la sua marca di Ginger Beer (un soft drink a base di zenzero). Ai due venne un’idea: perché non combinare insieme i due ingredienti? Ci aggiunsero anche un po’ di lime e così nacque un cocktail che, con quel pizzico di asprino, in gola “scalciava come un mulo”. Qui forse ci siamo fatti prendere troppo dalla leggenda, perché la versione ufficiale associa l’origine del nome ancora una volta ad una necessità fatta virtù: a quel tavolino del Chatham infatti si sedette un terzo imprenditore, anzi un’imprenditrice, che aveva da smaltire un intero magazzino pieno di oggetti di rame… in particolare un intero stock di mug da 5 once con inciso sopra un simpatico asinello, in cui venne bevuto il primo sperimentale intruglio e da quel momento in poi tutti gli altri.
La cavalcata del mulo
Inizialmente però il cocktail fu conosciuto come Vodka Buck, poiché facente parte della famiglia dei Buck Cocktail, drink a base di Ginger Ale o Ginger Beer. Ma se il nome stentava a decollare, non si poteva dire lo stesso della bevanda: infatti di Moscow Mule negli anni ’50 se ne bevvero davvero molti, e da Los Angeles la moda si estese fino a Manhattan portando con sé al successo anche la vodka, che finalmente riuscì a conquistare l’America. E al cocktail che fece la fortuna di quella piccola azienda che era allora, la Smirnoff restituì una volta per tutte il suo vero nome lanciando un bicchiere speciale dedicato, una tazza di rame con un mulo sopra in onore degli inventori.
Il mistero del cetriolo scomparso
Vodka, Ginger Beer, lime. Non c’era nient’altro nel bicchiere di John e Jack quella sera. Ma allora da dov’è saltato fuori il cetriolo? È molto probabilmente il tocco “russo” che qualche bartenderoriginale ha voluto dare al Moscow Mule: una tradizione alcolica dell’est Europa è infatti quella di buttar giù bicchierini di vodka liscia sgranocchiando di tanto in tanto dei cetriolini in salamoia. Detto questo, vi possiamo assicurare che qualche fettina di cetriolo fresco nel bicchiere non sta affatto male; però a scanso di equivoci ecco la ricetta ufficiale dell’IBA (International Bartenders Association), che assegna al cocktail un grado alcolico di circa 38,8% Vol.
Moscow Mule, la ricetta
Ingredienti: 4,5 cl Vodka 12 cl Ginger Beer 0,5 cl Succo di lime fresco 1 fetta di lime
Preparazione: Riempite di ghiaccio un bicchiere tumbler alto (highball) o la classica copper mug (bicchiere di rame). Unite la vodka con la Ginger Beer, poi aggiungete succo di lime e guarnite con una fettina di lime. È lecito aggiungere alla preparazione anche del cetriolo fresco, dello zenzero fresco e qualche foglia di menta.
La variante: il London Mule
Come ogni “classico” che si rispetti, anche il prepotente ritorno del Moscow Mule sui banconi di mezzo mondo ha portato con sé una piccola schiera di variazioni sul tema. Nella famiglia dei “Mule” è particolarmente apprezzato il London Mule, che si ottiene sostituendo la vodka con il gin. Uno stravolgimento radicale dato che il gin ha un gusto ben più deciso della vodka, ma nonostante ciò questa variante mantiene sorprendentemente l’equilibrio dei sapori.
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TRA ARTE E ALCHIMIA
J.Rose London Dry gin è un ottimo gin italiano e si veste d’arte con le illustrazioni del
grande Milo Manara: scopriamolo insieme…
(illustrazione in copertina di Enzo De Paola per J.Rose)
Un London Dry che rimane sempre se stesso ma cambia veste, indossando ben otto etichette diverse, tutte d’artista e tutte da collezionare: è J.Rose, distillato che nasce in Salento da un’idea di Dario Roselli, proprietario dell’atelier esclusivo Affreschi & Affreschi che progetta pareti sartoriali materiche. L’artista che ha “vestito” le bottiglie di J.Rose London Dry Gin è Milo Manara, icona del settore fumettistico e famoso per la sensualità delle sue rappresentazioni femminili. Abbiamo parlato con Dario Roselli per farci raccontare questa storia affascinante e originale.
Dario, parliamo subito delle bellissime etichette di J.Rose London Dry Gin, firmate da Milo Manara.
Molto volentieri. Tutto nasce dalla mia azienda Affreschi & Affreschi, che produce da vent’anni carta da parati di design su misura, composta da uno strato di intonaco ottenuto con un impasto di diverse materie prime di pregio, tra cui spiccano il marmo di Carrara e il travertino romano. Alle nostre collezioni collaborano vari artisti, l’ultimo dei quali è proprio Milo Manara, che ha firmato una nostra collezione appena presentata al Salone del Mobile di Milano.
L’idea di utilizzare la nostra carta da parati su bottiglie di alcolici è nata quasi per gioco a Natale, quando ho deciso di regalare ai miei clienti dei distillati usando come etichetta il nostro ultimo prodotto firmato da Manara. Trattandosi di un materiale particolare, il risultato sembra proprio un affresco: le persone che hanno ricevuto il regalo sono impazzite! Da lì ho deciso di produrre un mio distillato da immettere sul mercato, con otto diverse etichette, tutte da collezionare.
Oltre alle etichette, colpisce anche l’originalità del pugnale conficcato nel tappo di J.Rose
Sì, nel tappo è inserito un piccolo pugnale che si può sfilare e riutilizzare, come portachiavi o ciondolo. Una scelta che ho fatto per dare alla bottiglia un’identità ben specifica, una forte riconoscibilità e un apporto in più oltre alla forte presenza dell’opera di Manara.
Come sei passato dall’idea alla pratica? Come è nato J. Rose London Dry Gin?
Mi sono mosso velocemente: grazie alle conoscenze ottenute negli anni con la mia azienda molte ricerche sono state veloci, ad esempio quella della bottiglia, che ha un design particolare. Mi sono concentrato sullo sviluppo della ricetta e sulla ricerca della distilleria più adatta per produrre J.Rose, scegliendo infine una distilleria pugliese che ha saputo dare vita al distillato che avevo in mente. In quattro mesi l’idea si è trasformata in realtà, dedicandomi al progetto totalmente.
Parlaci delle caratteristiche di J.Rose, quali sono le botaniche che hai scelto?
C’è il bergamotto che arriva dalla Calabria come agrume principale, molto profumato, che non presenta la classica asprezza di altri agrumi: è molto delicato. Poi ci sono i fiori di fico d’India che vengono dalla Sicilia e donano un profumo delicato. Le altre botaniche che compongo J.Rose sono l’angelica, il cardamomo, la buccia di mandarino e il coriandolo. C’è anche un’ultima botanica, ma rimane segreta ed è quella che fa la differenza e che rende J.Rose bevibile anche liscio, perché è una botanica astringente, che ripulisce, lo rende in qualche modo simile a una grappa. Ho scelto di produrre un London Dry perché lo reputo il tipo di gin più pregiato e raffinato: volevo il meglio, un distillato superiore.
Da dove prende spunto il nome J.Rose?
Per adesso l’origine del nome resta un segreto, forse un giorno deciderò di svelare il mistero!
Come consigli di gustare J.Rose London Dry Gin?
Come ti dicevo prima, grazie alla botanica segreta astringente J.Rose è perfetto da gustare liscio. In mixology, se si utilizza per preparare un gin tonic consiglio una tonica neutra che non rovini la delicatezza del bergamotto. Si presta benissimo nella preparazione di tutti i cocktail secchi.
Hai in cantiere la produzione di altri distillati in futuro?
In questo momento mi concentro sul gin già realizzato. La mia idea è poi quella di uscire con altri artisti dopo questa collezione di Manara, in tirature limitate.
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Come è nato il Tiki? La storia della miscelazione più tecnica, stravagante e longeva di sempre raccontata dal suo maggiore esperto.
Suggestioni esotiche, personaggi stravaganti e geniali.
Il segreto del paradiso? Il rum.Di tutte le correnti e gli stili che si sono susseguiti nei tre secoli di miscelazione, il Tiki occupa circa cinquanta anni di storia.
Ma oltre la sua importanza temporale il Tiki è l’unica miscelazione che è riuscita a influenzare e cambiare il palato, le abitudini, i gusti e la moda e lo stile di vita di intere generazioni.Il Tiki non è solo la miscelazione di un barman, non è unicamente uno stile di drink, ma un contenitore di centinaia di cocktail che nascono e si evolvono con l’evolversi della società stessa.
Sarebbe quindi riduttivo classificare il Tiki in solo alcuni particolari drink definiti da questa parola ma, in questo ampio contenitore, sono presenti molteplici stili di miscelazione referenti ai barman e al loro tempo.Il Tiki, senza dubbio la miscelazione più importante della storia del cocktail.
Lampante è il caso dei due più grandi maestri della miscelazione Tiki, Donn Beach e Trader Vic.
Se la geniale e complessa innovazione tecnica di Don the Beachcomber, da cui prende vita la Tiki Era, è il mezzo per rifuggire mentalmente dalla cupa staticità di una società ammorbante e deprimente, il Tiki di Trader Vic è invece il veicolo di spinta verso un dinamismo sociale senza precedenti.È così che cocktail dai sentori complessi, potenti e meditativi di una prima era Tiki lasciano spazio a drink in cui invece la freschezza e la facilità della bevuta incentivano la spensieratezza e dinamismo delle persone. Cocktail diametralmente opposti ma entrambi definibili Tiki.
Stati Uniti, anni ’30 del secolo scorso.
Gli americani sognano i mari del sud, influenzati dai libri che descrivevano i viaggi degli esploratori e dalle opere dei grandi artisti.
Questo desiderio di evasione si accende sempre di più attraverso i racconti dei reduci della prima guerra mondiale che, nel grigiore dei bar e saloon di un epoca scura, ricordavano insieme isole, luoghi, baie e spiagge oceaniche appena intraviste ma reali.Il sogno polinesiano e caraibico in una società repressa dal clima di guerra diventa sempre più forte grazie al cinema. La forza dell’immagine proiettata rende ancora più concreta questa fantasia che gli americani si erano costruiti attraverso i libri ed i racconti.
Entrando visivamente nella mente delle persone cresce una fervida consapevolezza che quei paradisi terrestri esistono veramente. Lontano, da qualche parte, esistono isole dove uomo e natura convivono in una congiunzione armonica fatta di pace e serenità, dove l’allegria e il piacere sono espressi dalle esotiche danze delle Hula Girls.
Inutile dire che la l’idea romantica di questi luoghi va ben oltre ogni reale abitudine delle primitive tribù che popolavano queste isole, spesso cruente nella difesa della loro territorialità. Raggiungere questi luoghi rimane un sogno ancora molto lontano in quanto luoghi inarrivabili, così il cannibalismo e la ferocia degli headhunters sarà ben lontana dalla consapevolezza degli americani.
Quella che si fissa nelle menti occidentali è un’immagine idealizzata, è sentimentalismo suscitato da presunti luoghi incantati.
Ci vorranno ancora oltre trenta anni prima che una nave turistica sbarchi alle Hawaii. All’epoca le navigazioni erano praticamente solo commerciali e il primo aereo di linea ancora non era stato nemmeno progettato.Incredibilmente, per quasi trenta anni gli americani vivranno assuefatti da questo sogno e dall’idea distorta prodotta da queste immagini.
Può sembrare follia, ma la longevità di questo sogno è stata resa possibile solo grazie a una inequivocabile prova dell’esistenza del paradiso.“Se non potete arrivare al paradiso, lo porterò io da voi”
Con questa frase Donn Beach entra nella scena sociale nei primi anni trenta, portando agli americani la prova tangibile che il paradiso agognato esiste davvero.
Ci riesce inventandosi il Cocktail Esotico, grazie al quale il bar diventa il luogo dove si riproducono e si assaggiano i “reali” sapori di queste isole lontane.
Il Tiki è definitivamente arrivato e, non ci sono dubbi, la sua determinazione è resa possibile solo grazie al cocktail di Donn.Il suo primo bar, il Don’s Beachcomber, raccoglie i desideri degli americani sopperendo all’impossibilità di viaggiare.
Il locale, con ambientazione caraibica/polinesiana, diventa un non luogo: un ambiente in cui si respira il sogno, lontano dal mondo esterno e dalla società.Il bar di Donn infatti era isolato e protetto da ogni contaminazione esterna, senza finestre fisiche e psichiche.
L’ambientazione tropicale era realizzata con piante e fiori esotici, arredamento in bamboo, musiche e suoni tropicali, era inconsueta quanto il servizio dei drink.Innumerevoli bicchieri in vetro, dalle forme più strane oppure realizzati con noci di cocco e baby ananas, avevano sicuramente un impatto shock sul bevitore dell’epoca che da sempre conosceva praticamente solo due forme di bicchiere, il classico tumbler da Old Fashioned e la coppa champagne.
Così i nomi di queste pozioni esotiche, impreziosite dagli aromi degli home made segreti di Donn, immergevano i clienti nella scoperta della geniale sinfonia dei blend dei rum e soprattutto li allontanavano da ogni richiamo alla realtà del mondo.
Il tiki è un’immersione in sapori miscelati completamente nuovi, senza precedenti.
Il singolare personaggio di Donn Beach può lasciar pensare che la sua particolare attitudine alla stravaganza e all’eccentrico abbia facilmente permesso la realizzazione di questa bizzarra miscelazione, così contestualizzata, in un mero lampo di genio o colpo di fortuna.Nulla di più sbagliato. Non a caso era chiamato il “Marama”, ovvero il lungimirante.
Solo attraverso grande cultura e grazie a una profonda conoscenza si può arrivare a vedere oltre, a percepire la direzione del tempo.
Questa sua lungimiranza gli ha permesso di individuare il percorso sociale, e attraverso la sua cultura e sensibilità è riuscito a creargli attorno il contenuto di cui la società sentiva l’esigenza.Ma solo attraverso lo studio e la tecnica della miscelazione è riuscito ad incanalare questo percorso nel tempo e verso una precisa direzione.
“Quello che un solo rum non può fare, tre possono”
I drink di Donn sono quindi il risultato di anni di studi tecnici sulla miscelazione, i quali hanno permesso l’evoluzione del cocktail attraverso la smisurata conoscenza del rum, il distillato che ha reso possibile la più grande innovazione della storia del bere miscelato.
I cocktail di Donn sono esclusivamente cocktail al rum, il resto degli ingredienti dei drink hanno la funzione di legare, bilanciare, enfatizzare, esaltare, armonizzare i rum.
Le sue creazioni non sono concepite per la pura ricerca del gusto, ma rappresentano uno stato d’animo e sono intrise di valore culturale.
Ogni drink ha una sua specifica espressione che va oltre il suo sapore.
La capacità di evocare con un sorso un ricordo, una storia, un’emozione, un desiderio, un sogno rende i drink di Donn immortali.Esattamente quello che riuscirà a fare Trader Vic venti anni dopo con il Mai Tai, esempio lampante di un drink il cui valore emozionale surclassa ampiamente la sua ricetta stessa.
Questo concetto espresso da Donn dunque sarà così dilagante che questo nuovo modo di bere si espanderà per tutti gli Stati Uniti.
Con il tempo il Tiki non sarà più legato esclusivamente ai bar Don the Beachcomber, ma vivrà di vita propria. L’evoluzione il cambiamento della società nel tempo, avanzerà insieme alle tendenze delle nuove generazioni, subirà l’influenza dell’economia e della politica, diventerà moda ma seguirà sempre le esigenze delle persone.Ci saranno nuovi barman, come il già citato Trader Vic, che con la stessa preparazione di Donn riuscirà a dare un nuovo bilanciamento per le diverse attitudini dei clienti. Ci saranno nuovi distillati e un nuovo vestito al cocktail esotico.
Una nuova era, che seppur diversa farà sempre parte di questo enorme contenitore di cocktail e tendenze chiamato Tiki. -
Monkey Gland, filetto alla Voronoff e lunga vita
La leggenda di Voronoff e dell’elisir di lunga vita
L’elisir di lunga vita rappresenta un concetto che sublima le grandi domande dell’uomo, ed è il simbolo della ricerca dell’umanità. Spesso rappresentato nelle mitologie come una pozione e ricercato da alchimisti e scienziati, l’elisir di lunga vita ha dato origine a storie e leggende. Una di queste storie, relativamente recente, si fonde con una figura storica di grandissimo fascino, che ha avuto un grande impatto nella società nella quale ha vissuto. Il dottor Serge Voronoff.
Il Dottor Voronoff è stato uno dei personaggi pubblici più famosi del pianeta durante gli anni della sua professione di medico, tra la fine del XIX secolo e per tutta la prima età del XX secolo. Noto per avere condotto esperimenti rivolti alla ricerca del ringiovanimento dell’essere umano, attraverso la perpetua giovinezza e la potenza sessuale, il dottor Voronoff è stato attorniato da un’aura leggendaria.
Complici gli esperimenti nella lussuosa villa a Grimaldi, che ha contribuito a identificarlo con il letterario Dottor Frankenstein, Voronoff è stato un personaggio anche enigmatico. La grande preparazione scientifica e l’ineguagliabile dialettica lo hanno reso immortale, come testimoniano i numerosi omaggi presenti tutt’ora nella nostra società.
Molti artisti si sono ispirati al celebre medico per scrivere libri, opere teatrali, drammi e canzoni. Nella cucina contemporanea resiste la ricetta del filetto alla Voronoff, e il Monkey Gland rimane uno dei drink più famosi del pianeta, incluso tutt’ora nella lista ufficiale IBA 2020, nella categoria The Unforgettables, i cocktail immortali.
Un po’ di storia
Serge Voronoff nasce nel 1866 in Russia, nella città di Voronez, vicino all’Ucraina. Poco meno che ventenne si traferisce a Parigi e studia medicina, venendo a contatto con medici molto famosi. Dopo avere ottenuto la naturalizzazione francese lavora per 14 anni in Egitto, quindi a New York, dove frequenta il chirurgo premio Nobel Alexis Carrel, che trasferisce a Voronoff la propria esperienza circa i trapianti e gli innesti.
Il medico torna in Francia e inizia degli esperimenti sugli animali, trapiantando con successo le ovaie di animali. In seguito diviene famoso per il trapianto della tiroide da un scimpanzé ad un uomo, risolvendo così il caso di cretinismo di cui era affetto il paziente. Questo successo da il via alle celebri operazioni rivolte al ringiovanimento maschile attraverso l’innesto di testicoli di scimpanzé, che gli rendono fama immortale.
Gli esperimenti e le operazioni avvengono nel Castello Voronoff, noto ora come Villa Voronoff, a Grimaldi, una frazione di Ventimiglia al confine con la Francia.
Il dottore e il professore: Enzo Barnabà
La persona di Serge Voronoff è avvolta dal fascino emanato dalla sua figura carismatica e da quello dei tempi in cui visse, un periodo storico nel quale c’era posto per farsi sedurre dal mistero. Del celebre medico si sono occupati in molti, ma se si intende conoscere a fondo la storia e le gesta di Voronoff il consiglio è procurarsi una copia di “Il sogno dell’eterna giovinezza. Vita e misteri di Serge Voronoff” scritto da Enzo Barnabà.
Il professore ligure ha svolto un grande lavoro di ricerca, aiutato dallapossibilità di reperire notizie uniche provenienti dalle preziose fonti della memoria. Lo scrittore vive infatti a Grimaldi, dove Voronoff conduceva i suoi esperimenti.
La grande disponibilità e le parole di Enzo Barnabà mi consentono di conoscere la storia di Voronoff; il professore racconta:
Il dottor Voronoff
“Agli inizi degli anni 20 del secolo scorso il dottor Voronoff era uno dei personaggi più popolari del pianeta. Per comprendere quanto fosse noto pensiamo all’epoca: la divulgazione delle immagini e delle notizie non erano lontanamente paragonabili a quelle odierne.
Una volta il dottore volle prendersi un lungo periodo di ferie e partì per un giro del mondo verso oriente, del tutto simile a quello narrato da Jules Verne ma in otto mesi. Quando sbarcò in India venne riconosciuto nella hall di un albergo da un maraja che lo invitò nella sua reggia. Qui il nobile indiano lo convinse a farsi operare, ospitando Voronoff per tutto il tempo che attesero affinché giungessero dall’Europa i ferri del mestiere e le scimmie selezionate dal dottore.
In un’occasione precedente, durante un congresso a Rio de Janeiro, venne accolto come una star al porto locale, rimanendo stupito da tale entusiasmo. Ciò fu dovuto ad un romanzo molto popolare nel paese sudamericano che narrava le gesta di Voronoff, personaggio modellato sulle forme del celebre medico.
Voronoff possedeva un’ottima dialettica e una grande facilità di scrittura, che gli permisero di scrivere libri che ebbero molto successo. Alcuni giornalisti molto noti raccontano di quanto fosse difficile tentare di “manipolare” le interviste con Voronoff. Il grande giornalista Arnaldo Fraccaroli de Il Corriere della Sera racconta di quando, insieme a navigati colleghi esteri, volle intervistare il dottore, sicuro di riuscire a farsi dare le informazioni che bramava. Al termine del colloquio i 4 giornalisti si resero conto di essere stati raggirati da Voronoff, grazie agli eloquenti escamotage del medico.”
I luoghi di Voronoff
“Grimaldi è una frazione di Ventimiglia ed è l’ultimo avamposto prima del confine con la Francia. Una delle strade principali del piccolo borgo è via Voronoff, dedicato al cittadino più illustre che abbia mai abitato nella frazione ligure. Il medico fu presidente onorario della società di mutuo soccorso e la Villa Voronoff rimane l’edificio più importante di Grimaldi. La casa-laboratorio del dottore è situata sulla Aurelia, a circa 300 metri dalla frontiera in una posizione unica: la dogana ufficiale fu infatti posta a metà della villa, dove i doganieri italiani e francesi lavoravano gomito a gomito.
Villa Voronoff aveva due ingressi, posti rispettivamente sul territorio italiano e francese. In questo modo il dottore poteva acquistare le banane per i primati dalla più economica Francia senza pagare dazi. Non solo merci ma anche persone: attraverso Villa Voronoff passavano il confine anche i massoni della loggia de I Perseveranti per riunirsi con i confratelli di Mentone, messi al bando dal governo fascista.
Le leggi fasciste furono anche motivo dell’abbandono della villa da parte del medico. In quanto ebreo Voronoff fu soggetto alle leggi razziali e la villa finì tra le proprietà di un ufficiale dei carabinieri.
Dal termine di via Voronoff si può raggiungere Il passo della morte, un sentiero che collega l’Italia alla Francia privo di dogana, da sempre usato per traffici di ogni genere.”
Il laboratorio del dottor Voronoff e le operazioni
“Le operazioni avvenivano all’interno del laboratorio ligure del dottore, dove venivano custoditi esemplari di scimpanzé e non di gorilla, come alcuni pensano. Gli esemplari venivano mandati da alcuni missionari del Benin tramite navi che attraccavano a Marsiglia. Da li viaggiavano sino al confine con l’Italia e quindi nella residenza del medico. Molti esemplari perivano durante il viaggio quindi il medico pensò di allestire un allevamento in Europa.
Dopo avere tentato invano di acquistare un terreno adatto a Montecarlo, dietro il suggerimento dello scrittore Louis Notari acquistò la villa di Grimaldi.
L’acquisto della villa fu esoso ma Voronoff non aveva problemi di denaro, grazie all’immensa fortuna ereditata dalla seconda moglie, co-proprietaria della Esso, che lo rese precocemente vedovo.
Il dottore attuò degli xenotrapianti con cani e pecore e in seguito, nel 1921, passo a interessarsi all’essere umano. In quel periodo non era l’unico, era forse la persona che sapeva meglio attirare l’attenzione su di sè. C’era una lunga attesa di pazienti che desideravano farsi operare dal dottor Voronoff e non tutti vi riuscivano.
Il trapianto consisteva nell’asportazione dei testicoli dei primati, che venivano trapiantati subito dopo nel paziente, sdraiato nel letto accanto e sedato tramite anestesia locale. I frammenti dei testicoli animali venivano “incollati” a quelli dell’uomo, senza un vero e proprio innesto.